22 giugno 2018 10:10

Sul New York Magazine hanno definito Thelma, il film del norvegese Joachim Trier su una ragazza che scopre di avere facoltà paranormali, come una specie di “Carrie, lo sguardo di Satana girato da Ingmar Bergman”. Mi pare una semplificazione eccessiva, buona per il marketing. Il film di Trier nella trama ha qualche punto in comune con quello di Brian De Palma (e con il romanzo di Stephen King), ed è ambientato in Scandinavia. Mi pare un po’ poco per scomodare Bergman (o anche De Palma). Senz’altro abbiamo un autore norvegese che gioca con i generi, soprattutto, come ha scritto Manohla Dargis sul New York Times, il gotico femminile: “Quel genere carico di desideri, terrore, tremori e ansie, in cui le donne sono contemporaneamente vittime e protagoniste del cambiamento”.

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Thelma (Eili Harboe) è una matricola all’università di Oslo, dove studia biologia. Ambiente non semplice per una ragazza che viene da una piccola città e non ha ancora amici. La rigida educazione religiosa che le hanno impartito i suoi genitori contribuisce a renderla un’outsider. Poi, all’improvviso, è colpita da quello che sembra un attacco epilettico. Faccio fatica a definire Thelma un horror (secondo me non lo è). Ma la difficoltà a incasellare il film è una delle cose che lo rende interessante, insieme alla sua giovane protagonista e ad alcune sequenze molto ben realizzate. Praticamente nessun elemento dei tanti messi insieme da Trier è davvero originale, ma è il risultato finale che conta.

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Sempre al nord guarda Noi siamo la marea, di Sebastian Hilger, che ha vinto il premio del pubblico al festival di Torino del 2016. Dal paesino tedesco di Windholm sparisce il mare. Arriva la bassa marea, l’acqua si ritira e non torna più. E insieme alle maree spariscono anche tutti i bambini del villaggio. Quindici anni dopo un giovane fisico vuole scoprire cosa è successo, pensando a forze gravitazionali e cose simili. Una volta sul posto scoprirà che le forze coinvolte nell’inspiegabile fenomeno sono anche altre.

Il film è affascinante, anche per l’ambientazione tedesca, grigissima. Non sono sicuro di aver capito fino in fondo la spiegazione del mistero di Windholm. Anche perché al regista riesce un effetto alta marea. Il finale sembra avvicinarsi piano piano, ma senza neanche accorgercene ci ritroviamo con i piedi a mollo e i titoli di coda sullo schermo.

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In L’affido. Una storia di violenza il regista Xavier Legrand, vincitore del Leone d’argento per la miglior regia all’ultimo festival di Venezia, racconta la causa per l’affido di un bambino di undici anni e le sue conseguenze in modo estremamente coinvolgente, mettendoci cioè in una posizione molto scomoda. Quella di qualcuno che la violenza la conosce e la subisce, ma che alla fine non può fare molto per impedirla e può addirittura diventarne un inconsapevole veicolo.

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Con The escape, di Dominic Savage, rimaniamo in ambito domestico, ma siamo da tutt’altra parte. Tara (Gemma Arterton) ha un marito che la ama, dei figli, una bella casa, una vita che sua madre le invidia. Ma qualcosa non va. Dire che si sente in trappola forse non basta. Il senso di soffocamento e l’assenza totale di qualcosa che lei possa in qualche modo tenere per sé sono resi molto bene. Prima di scivolare dalla depressione alla disperazione, prende e se ne va.

Cosa l’aspetta? Un percorso di emancipazione? Un’avventura? O la presa di coscienza che è facile passare da una trappola a un’altra? Gemma Arterton e Dominic Cooper, che qui è bravissimo a interpretare un marito che ama la moglie ma ha difficoltà a capire perché questo non le basti, facevano coppia già in Tamara Drewe di Stephen Frears. Non sono riuscito a cancellare completamente l’immagine (resa anche in quel caso molto bene da Cooper) del batterista narcisista che cercava di tenere Tamara lontana dal suo vero amore. Non capisco se la cosa, alla fine, ha guastato o no la visione di The escape.

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