17 gennaio 2018 16:03

“La Santa Sede ringrazia vivamente quanti si sono adoperati per il ritrovamento di padre Tom Uzhunnalil, in particolare sua maestà il sultano dell’Oman e le autorità competenti del sultanato”: con questo breve comunicato diffuso il 12 settembre 2017, il Vaticano commentava la liberazione del salesiano indiano rapito ad Aden (in Yemen) il 4 marzo 2016, dopo un attacco a una casa per anziani gestita dalle suore di madre Teresa di Calcutta in cui erano morte 16 persone, tra cui quattro suore.

Sono poche le occasioni in cui il sultanato fa parlare di sé: discrezione è una delle parole d’ordine di questo paese all’estremo angolo orientale della penisola arabica. Eppure, con discrezione, sotto la guida del sultano Qabus bin Said al Said, Mascate porta avanti una sua diplomazia originale.

La posizione geografica fa dell’Oman un tassello essenziale nella strategia del golfo e la parola d’ordine scelta dal sultano è neutralità. L’Oman si affaccia sullo stretto di Hormuz, un tratto di mare appartenente all’Iran e passaggio fondamentale dal golfo Persico. È stato il terreno per le trattative che nel 2015 hanno portato all’alleggerimento delle sanzioni internazionali contro l’Iran, con cui Mascate ha buone relazioni fin dal 1979. Ha cercato anche di mediare nel conflitto siriano, come testimonia la visita del ministro degli esteri di Damasco a Mascate nell’agosto del 2015 su invito di Qabus. L’anno dopo, quando alla Casa Bianca c’era Barack Obama, il sultano ha organizzato dei colloqui tra funzionari statunitensi e rappresentanti houthi per provare a risolvere il conflitto in Yemen, ma su questo – oltre a pesare il ruolo della nuova amministrazione Trump – si è fatta sentire la carenza di una volontà in questo senso da parte delle grandi potenze coinvolte, cioè Arabia Saudita e Iran. Perciò l’intervento del sultano nella liberazione di ostaggi occidentali è stato decisivo.

Anche sulla crisi in Qatar Qabus ha scelto la neutralità e, insieme al Kuwait, si è opposto al blocco voluto da Riyadh, che accusa Doha di sostenere il terrorismo. Ora l’Oman è uno dei pochi paesi del Medio Oriente in cui la Qatar Airways può ancora volare.

La politica regionale e internazionale di Mascate è l’espressione di una visione ben precisa che il sultano ha del paese e del suo ruolo.

Qabus guida il paese dal 1970 e anche se nel 2011 la primavera araba si è fatta debolmente sentire pure qui, il sultano è molto rispettato. Suo padre, Said bin Taimur al Said, in 38 anni di potere aveva lasciato il regno in uno stato di arretratezza spaventosa. Nell’ottocento, grazie al commercio di armi e schiavi, il sultanato aveva conosciuto una fase di grande splendore, consolidando un impero che andava da Zanzibar al Pakistan. Ma al momento della deposizione del sultano Said (e il suo conseguente esilio) da parte del figlio, in Oman c’erano solo tre scuole, un tasso di alfabetizzazione del 5 per cento e uno di mortalità infantile del 75 per cento. C’erano solo 13 medici e gli ospedali si contavano sulle dita di una mano, gestiti da missionari. Il paese aveva meno di dieci chilometri di strade. Agli omaniti era proibito espatriare a meno di avere un permesso speciale.

Il panorama sobrio, da paese socialista degli anni sessanta, è il volto dell’ibadismo

Pur mantenendo una forma di monarchia assoluta, Qabus ha cominciato a modernizzare le istituzioni e a rompere l’isolamento del paese, facendolo entrare nelle Nazioni Unite e nella Lega araba e invitando tutti i suoi connazionali che vivevano all’estero a tornare. Così ha costituito un nuovo governo, nel quale però ha presto assunto le cariche di primo ministro, ministro degli esteri e della difesa. Ha creato una sorta di parlamento elettivo, anche se con un ruolo puramente consultivo, visto che ogni decisione passa per la sua approvazione. Ha introdotto l’insegnamento obbligatorio per bambine e bambini e abolito la schiavitù. Come esercizio di democrazia diretta gli omaniti possono affidarsi agli incontri con il sultano, che periodicamente, almeno fino a qualche anno fa, girava il paese incontrando i cittadini e ascoltando lamentele e proposte. Così l’Oman è ripartito dal nulla, scalando posizioni su posizioni di tutte le classifiche sociali ed economiche.

Qabus si è conquistato il consenso popolare assumendosi, letteralmente, i suoi sudditi: migliaia di dipendenti pubblici – tra militari, poliziotti, impiegati, operai e giardinieri – garantiscono un’efficienza inaspettata e una manutenzione del bene pubblico – a tutti i livelli, dalle aiuole agli uffici pubblici – continua e meticolosa. La capitale è splendente come i suoi marciapiedi, circondati da fiori le cui sfumature sono curate senza sosta. Il cambio al nero è rarissimo, nella capitale nessuno chiede l’elemosina, ci sono percorsi per persone con disabilità, il clima è rilassato, polizia e militari sono praticamente invisibili, anche se il paese è costellato di caserme. Oggi però la politica di assicurare un lavoro a tutti (magari poco, ma sicuro), che ha garantito la stabilità del paese, mostra le prime crepe: il settore pubblico è quasi completamente saturo, e quello privato impiega soprattutto immigrati da India, Pakistan, Sri Lanka e altri paesi asiatici (che sono il 45 per cento della popolazione). Il welfare non è più garantito gratuitamente a tutti e l’omanizzazione di alcuni settori economici (come quello alberghiero o delle licenze di taxi) prevista per legge non è sufficiente per contenere un malcontento che rischia di esplodere.

Il palazzo del sultano a Mascate, Oman, novembre 2010. (Lutz Jaekel, Laif/Contrasto)

Il paesaggio dell’Oman è costellato di forti, castelli e torri, niente cartelloni pubblicitari, grattacieli o negozi di lusso. Solo qualche centro commerciale Lulu – la perla, una grande catena degli Emirati – o Carrefour. Il panorama sobrio, da paese socialista degli anni sessanta, lontano dalle immagini dei lussuosi paesi del golfo, è il volto dell’ibadismo, la corrente musulmana nata agli albori dell’islam che ha fatto dell’integrità morale, della cultura e del senso di identità le sue basi, dando vita a un islam austero ma non intollerante.

Anima antica
L’Oman è stato islamizzato fin dagli inizi della predicazione di Maometto. Lo testimonia, tra le altre cose, una delle più antiche moschee del paese, quella di Qiblatain, a Ibra, a un centinaio di chilometri da Mascate. Il nome della moschea significa “due qibla”, per le due nicchie che indicano la direzione verso cui pregare. Fino al 624 nelle moschee la qibla era rivolta verso Gerusalemme, come fanno gli ebrei, ma dopo una rivelazione Maometto cambiò la preghiera indirizzandola verso La Mecca. La piccola moschea di Ibra – senza minareto, come nella tradizione ibadita – conserva le due qibla: quella precedente alla rivelazione e quella successiva.

La tradizionale apertura del sultanato, per secoli terra di commerci e scambi molto intensi, ne ha fatto il terreno ideale per l’insediamento della comunità ibadita, una scuola dell’islam precedente anche allo scisma tra sunniti e sciiti, che si vanta di seguire esattamente le linee religiose dettate dal profeta (oggi esistono in piccoli gruppi anche a Zanzibar, in Algeria, in Tunisia e nel sud della Libia). All’inizio gli ibaditi furono sospettati di eresia, tanto che la loro pratica era spesso tenuta segreta per paura di persecuzioni. Particolarmente sospetta era la scelta di non eleggere la loro guida necessariamente tra i discendenti di Maometto, o tra quelli di una certa razza o colore della pelle.

Anche la loro tolleranza per le diversità religiose e culturali risultava sospetta: nella preghiera del venerdì degli ibaditi non si chiede la maledizione dei nemici; possono pregare nella stessa moschea con sunniti e sciiti; nell’incontro con l’altro nell’ibadita deve prevalere il giudizio sincero e ponderato della fede dell’interlocutore (wuquf), una sorta di azione di discernimento. L’attuale ministro per i beni e gli affari religiosi, Abdallah bin Mohammed bin Abdullah al Salimi, ribadisce volentieri questo atteggiamento e negli incontri preferisce ricercare fili teologici che uniscono le religioni, piuttosto che quelli che li dividono. Tanto che cristiani, induisti, buddisti e anche mormoni hanno diritto di culto, ma non di proselitismo.

La sobrietà ibadita permea il paese. La veste tradizionale, caldeggiata dal sultano – gli uomini con la jellabiya bianca e il copricapo tradizionale e le donne con l’abaya nera, velate – è un’uniforme che livella e nasconde le differenze sociali, facendo subito individuare i numerosi turisti e gli immigrati. Anche la ricchezza personale del sultano, frutto di una percentuale sui proventi dalla vendita di petrolio e gas, che finora hanno assicurato il 45 per cento del pil nazionale, non è esibita. Solo il suo grande panfilo, costruito in Italia e ancorato nel golfo di Mutrah, nella capitale, rivela un lato di eccesso assente perfino nel sobrio palazzo reale.

Visto il suo ruolo così (discretamente) rilevante nella regione, il futuro dell’Oman desta qualche preoccupazione. Qabus è malato: tra il 2014 e il 2015 è stato otto mesi in Germania per curarsi e dal suo ritorno conduce una vita ancora più ritirata. Non ha eredi: un suo matrimonio, da molti considerato di circostanza, è durato poco tempo e non ha lasciato discendenti. La costituzione attualmente prevede che il consiglio della famiglia regnante scelga il successore dopo che il trono si è reso vacante e la preferenza del sultano deve essere espressa in una lettera che resta segreta fino alla sua morte. Quindi dopo Qabus c’è l’ignoto, anche se si parla di una possibile trasmissione di poteri al fratello.

Oggi il paese, con il suo paesaggio lunare e montagnoso, è un perenne cantiere per la costruzione di autostrade, cavalcavia, fabbriche. È un cantiere anche di convivenza e dialogo. E una sua possibile crisi sarebbe pericolosa per una regione già in fiamme.

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