U na fuga di notizie è l’incubo di ricchi e potenti che ricorrono ai paradisi fiscali per nascondere i loro averi agli sguardi indiscreti. L’incubo è diventato realtà per i 35 capi di stato (passati o ancora in carica) e i 130 miliardari citati nei Pandora papers, la nuova inchiesta del Consorzio internazionale dei giornalisti investigativi (Icij), di cui fa parte anche Le Monde. Quasi dodici milioni di documenti, che vanno dal 1996 al 2020 e provengono dai paradisi fiscali più opachi del pianeta, sono stati trasmessi da una fonte anonima a un consorzio formato da 150 testate. L’Icij e i suoi partner hanno avuto accesso agli archivi di quattordici studi legali, tutti specializzati nella creazione di società anonime. Quattordici anelli della lunga catena che fa girare il mondo parallelo della finanza off­shore, dove non valgono le regole classiche dell’economia (trasparenza, equità, responsabilità). I loro nomi – Trident Trust, DadLaw, Sfm o Il Shin – non diranno niente al grande pubblico. Eppure, proprio come lo studio legale Mossack Fonseca, al centro dello scandalo dei Panama papers, nel 2016, questi studi, sparsi in paradisi fiscali che custodiscono bene i segreti (Belize, Isole Vergini Britanniche, Cipro, Dubai), giocano un ruolo centrale nel sistema.

Tra le migliaia di nomi svelati nei Pandora papers troviamo un numero senza precedenti di politici di alto livello: l’ex premier britannico Tony Blair, l’ex direttore generale del Fondo monetario internazionale Dominique Strauss-Kahn, il presidente keniano Uhuru Kenyatta, il primo ministro libanese Najib Mikati, il re giordano Abdallah II, il primo ministro ceco Andrej Babiš, il presidente ecuadoriano Guillermo Lasso, il presidente ucraino Volodymyr Zelensky, il presidente gabonese Ali Bongo, il primo ministro ivoriano Patrick Achi, il presidente congolese Denis Sassou-Nguesso. In totale l’Icij ha individuato più di trecento persone che hanno ricoperto cariche pubbliche in tutto il mondo.

Il sistema si perpetua grazie a una concorrenza al ribasso in tema di trasparenza

Quest’elenco impressionante stravolge la nostra comprensione della natura profonda dei paradisi fiscali. Si può pensare che un capo di stato autoritario abbia poco interesse a frodare la sua stessa amministrazione fiscale. Ma più che un modo per pagare meno tasse, nei centri off­shore i politici che vogliono sottrarre il loro patrimonio agli occhi dell’opinione pubblica cercano l’opacità. “Se il re di Giordania dichiarasse pubblicamente le sue ricchezze, susciterebbe l’ostilità non solo del suo popolo, ma anche dei finanziatori occidentali che l’hanno aiutato”, spiega Annelle Sheline, ricercatrice del Quincy institute. Mettendo i loro soldi in società e conti anonimi all’estero, a volte intestati ai familiari, questi capi di stato si garantiscono anche un’assicurazione sulla vita: proteggono i patrimoni da inchieste giudiziarie che potrebbero considerarli il frutto di attività illecite, soprattutto se dovessero perdere il potere. I centri off­shore, infatti, offrono una protezione contro le leggi e i giudici, spesso incapaci di portare avanti le loro inchieste nel groviglio di società anonime che hanno sede in stati dalle norme molto protettive.

Lo testimonia l’impressionante lista di criminali presenti nei Pandora papers: dal commerciante d’armi al narcotrafficante, dal criminale sessuale in fuga al mafioso italiano. Come Raffaele Amato, boss della camorra sospettato di una decina di omicidi, la cui storia ha ispirato il libro e la serie televisiva Gomorra. Amato ha usato una società di comodo per comprare terreni in Spagna dopo essere sfuggito alla giustizia. C’è anche Jho Low, personaggio chiave nello scandalo 1Mdb (un fondo controllato dal governo della Malaysia), una delle più grandi sottrazioni di soldi pubblici della storia. I documenti svelano una miriade di società create da quest’uomo d’affari, oggi latitante, con l’obiettivo di usare i soldi sottratti al 1Mdb per comprare alberghi di lusso in California.

Oltre a fornire elementi per procedimenti giudiziari già in corso, probabilmente gli archivi di queste società off­shore nascondono molti altri scandali. Nel giro di qualche mese i seicento giornalisti che hanno analizzato i documenti hanno portato alla luce diversi casi. In Messico una congregazione religiosa al centro di una vicenda di abusi sessuali, pochi giorni dopo che il Vaticano ne aveva ordinato il commissariamento, ha fatto sparire centinaia di migliaia di dollari facendoli confluire in società opache, complicando così le procedure per il risarcimento alle vittime. In Francia un complottista di estrema destra ha fatto ricorso a una società con sede alle Seychelles per vendere libri e pillole miracolose. In Italia un terrorista neofascista ha creato un vero impero finanziario occulto grazie a intermediari svizzeri e panamensi.

Uno strumento neutro

Com’è possibile che un sistema simile esista ancora nonostante la successione ininterrotta di scandali? Prima di tutto grazie a una narrazione dura a morire, secondo cui il sistema off­shore è uno strumento neutro che sarebbe semplicemente usato male da alcune persone, alla stregua di un coltello, dell’atomo o dei social network. In quasi tutti i paesi è legale avere attività off­shore o fare ricorso a società anonime intestate a prestanome. Questi strumenti sono considerati addirittura necessari per gli affari internazionali, in un’economia globalizzata dove l’intrico di leggi e norme fiscali nazionali ostacolerebbe qualsiasi alternativa. In genere sono puniti solo gli usi illegali, come l’evasione fiscale, la corruzione o il riciclaggio di denaro.

Anno dopo anno, però, le rivelazioni della stampa confermano la natura diffusa degli abusi di questo sistema. Off­shore leaks (2013), China leaks (2014), Panama papers (2016), Bahamas leaks (2016), Foot­ball leaks (2016), Money island (2017), Malta files (2017), Paradise papers (2017), Dubai papers (2018), FinCen files (2020), OpenLux (2021) e ora Pandora papers. Ognuno di questi scandali mostra l’incapacità degli stati di sorvegliare in modo efficace questi territori opachi del mondo finanziario, che concentrano patrimoni per più di 8.700 miliardi di dollari, secondo la stima fatta nel 2017 dall’economista Gabriel Zucman.

Grazie alle pressioni dell’opinione pubblica, nell’ultimo decennio sono stati fatti degli incontestabili passi in avanti: nel 2017 nell’Unione europea è stato abolito il segreto bancario; dal 2019 la trasparenza è in teoria la norma in tutto il mondo e grazie allo scambio automatico d’informazioni sui conti bancari le autorità fiscali di un paese sanno se un loro cittadino ha soldi all’estero; un numero crescente di paesi ha istituito registri dei proprietari reali delle società, in modo da spezzare il segreto dei prestanome. Tutto questo edificio però si basa sulla collaborazione degli intermediari finanziari che registrano le società e sono responsabili della raccolta delle informazioni sui loro clienti. Tra loro ci sono i quattordici studi legali al centro dei Pandora papers, ma anche un gruppo molto più ampio composto da banchieri, avvocati, notai, senza i quali il mercato off­shore non esisterebbe. Per qualche migliaia di euro o di dollari, questi mettono a disposizione una vasta gamma di strumenti che permettono ai clienti di nascondersi dietro facciate di comodo e rendere opachi i loro patrimoni, dalla società virtuale con un prestanome al fondo che garantisce l’anonimato per generazioni.

L’argomento è centrale, tanto più che questi mercanti di segreti, una volta chiamati in causa, respingono ogni responsabilità, dando la colpa ai loro clienti e agli stati che, sostengono, non sono in grado di effettuare i controlli. I Pandora papers confermano che questi studi legali spesso non assolvono l’obbligo di verificare l’integrità dei loro clienti e la legalità delle loro transazioni. Oggi, alla luce di questa nuova inchiesta, emerge come lo studio Mossack Fonseca non fosse un caso isolato. Anzi, alcuni studi legali non hanno esitato a raccoglierne il testimone.

In ultima analisi il sistema si perpetua grazie a una concorrenza mondiale al ribasso in materia di trasparenza. Nei Caraibi i centri off­shore stanno cercando di mettersi in linea con la comunità internazionale, adottando regole di controllo più severe. Alcuni paradisi fiscali hanno accettato la creazione di un registro pubblico con i nomi dei beneficiari reali delle società. Allo stesso tempo, però, nuovi eldorado spalancano le braccia ai clienti in cerca di opacità. Stati piccoli ma potenti (Singapore, Emirati Arabi Uniti) o territori che fanno parte di una superpotenza (Hong Kong per la Cina, il South Dakota per gli Stati Uniti, Cipro per l’Unione europea) sono meno sensibili alle pressioni internazionali e godono di una maggiore tolleranza. Dubai simboleggia alla perfezione questa evoluzione. La comunità internazionale permetterà che questi nuovi paradisi fiscali si trasformino in porti sicuri per l’evasione fiscale e il denaro sporco? ◆ gim

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Questo articolo è uscito sul numero 1430 di Internazionale, a pagina 102. Compra questo numero | Abbonati