Nella saggistica economica, genere più vicino ai manuali d’informatica che alla letteratura, un articolo uscito di recente sul sito della Federal reserve (Fed, la banca centrale degli Stati Uniti) è un benvenuto motivo di sollievo. L’autore del testo, Jeremy Rudd, un ricercatore della Fed, cita William Butler Yeats e Dashiell Hammett, e usa espressioni come “stizzosa” e “sesquipedale”. Inoltre, quasi a voler impersonare David Foster Wallace, si diverte con le note a piè di pagina. In una, in particolare, osserva con nonchalance che l’economia ufficiale può servire per “giustificare un ordine sociale criminosamente oppressivo, insostenibile e ingiusto”. Non c’è da meravigliarsi che il suo articolo abbia suscitato scalpore sui social network, quanto meno rispetto agli standard di una banca centrale.

Il saggio di Rudd, tuttavia, più che nello stile è provocatorio nella sostanza, perché attacca un assioma della teoria economica: quello secondo cui le aspettative determinano l’inflazione. Se i lavoratori si aspettano un aumento dei prezzi, chiedono salari più alti. Se le aziende prevedono un aumento dei costi, fissano prezzi più alti. In entrambi i casi l’inflazione diventa una profezia che si autoavvera. Il compito delle banche centrali è fare in modo che le aspettative restino basse e siano stabili. Se ci riescono, riescono a controllare l’inflazione. Quest’idea sembra aver avuto successo negli ultimi trent’anni. A ogni aumento rispetto all’obiettivo fissato dalle banche centrali è seguita una diminuzione in tempi abbastanza brevi. È proprio questo il motivo per cui molti economisti sono ottimisti sull’attuale aumento dell’inflazione: alla fine i problemi nella catena delle forniture finiranno e i prezzi si stabilizzeranno.

Ma è qui che interviene Rudd. Il modello delle aspettative “poggia su basi estremamente deboli”, scrive. Nella maggior parte dei casi include le aspettative come una variabile di breve periodo (relativa cioè a uno o due mesi). I banchieri centrali e gli analisti, invece, guardano alle aspettative come a una forza che agisce su un periodo più lungo, una tendenza sottostante, impermeabile agli alti e bassi del ciclo economico. Da un punto di vista empirico, però, è difficile documentare l’influenza delle aspettative. Quali sono quelle che contano? Quelle delle persone comuni, delle aziende, degli analisti, degli investitori? Nessuna, dice Rudd, è davvero utile a prevedere l’andamento dei prezzi.

È vero che negli ultimi trent’anni i paesi ricchi hanno avuto sia un’inflazione bassa sia basse aspettative. Rudd, però, osserva che da questa situazione è stato tratto un errato nesso di causalità. Non sono state le basse aspettative a determinare una bassa inflazione, ma è stata la bassa inflazione a generare basse aspettative. Come sottolinea il ricercatore della Fed, le aspettative si sono ridotte solo dopo una recessione nei primi anni novanta, quando l’inflazione è scesa all’improvviso ed è rimasta molto bassa. L’ossessione per le aspettative, conclude, è inutile, perché contano solo i prezzi osservati, e dannosa, perché i banchieri centrali potrebbero sviluppare una fiducia eccessiva nel loro potere di controllo della mente umana.

Il quadro complessivo

L’articolo di Rudd ha provocato reazioni feroci. Tyler Cowen, un economista della George Mason university, negli Stati Uniti, ha indicato l’esempio estremo dell’iperinflazione come prova che le aspettative sono importanti. Quando le persone pensano che il giorno dopo la loro valuta varrà molto meno, ha scritto, se ne liberano. Ricardo Reis, della London school of economics, ha osservato che nessuna variabile – né le aspettative né le riserve di denaro, la disoccupazione o i tassi d’interesse – è infallibile nel prevedere l’inflazione. Ognuna, però, contribuisce al quadro complessivo. Oltretutto, ha aggiunto, l’importanza delle aspettative è suffragata da un’abbondanza di prove. Per esempio, molti studi dimostrano che le aziende convinte che i costi aumenteranno tendono a stabilire prezzi più alti.

Per quanto il dibattito possa apparire infuocato, potrebbero esserci dei punti di contatto tra le diverse posizioni. Adam Posen, del Peterson institute for international economics, ha fatto una distinzione cruciale. Nel lungo periodo le aspettative sull’inflazione e, nello specifico, il fatto che le persone credano che la banca centrale interverrà per placare l’aumento dei prezzi, sono importanti. Tutt’altra cosa, però, “è dire che le sottili differenze nelle aspettative sono misurate in modo accurato o sono rilevanti nelle decisioni politiche di breve periodo”. Non ci sono prove del fatto che la comunicazione delle banche centrali possa controllare l’inflazione da sola senza misure politiche. La loro credibilità deriva più dalle risposte che sono in grado di offrire alle crisi che dai tentativi di gestire le aspettative.

Quando guidava la Fed, Janet Yellen, oggi segretaria del tesoro degli Stati Uniti, fece una distinzione simile. In un discorso del 2015 dichiarò che aspettative stabili nel lungo periodo sembrano legate a un’inflazione stabile nel lungo periodo. Si disse tuttavia “piuttosto scettica” sul fatto che le banche centrali possano influenzare le aspettative semplicemente limitandosi ad annunciare un obiettivo d’inflazione. Al contrario, concluse, le aspettative possono rafforzarsi solo quando una banca centrale mantiene l’inflazione vicina al suo obiettivo, un processo che può richiedere anche molti anni.

Leggendo il saggio di Rudd, alcuni commentatori hanno concluso che l’economia è un caos e che nessuno capisce l’inflazione. Eppure, esaminando con attenzione i vari argomenti, si possono trarre alcune conclusioni. Primo, la credibilità delle banche centrali è preziosa. Secondo, le aspettative sull’inflazione si formano in base all’esperienza dell’inflazione. Terzo, è probabile che nel lungo periodo queste aspettative siano importanti. Cosa significa questo per le pressioni inflazionistiche attuali? Secondo alcuni, le banche centrali dovrebbero tenere a bada i prezzi prima che sia troppo tardi e che le aspettative prendano il largo. Altri dicono che le banche centrali dei paesi ricchi continuano a essere credibili. Se permettono all’inflazione di salire un po’, questo potrebbe contribuire a regolare le aspettative. Dopo tutto, prima del covid-19 la loro preoccupazione maggiore era l’inflazione troppo bassa. O, quanto meno, questo era ciò che alcuni economisti e investitori avevano previsto per il futuro, per quel che possono valere le loro aspettative. ◆ gim

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Questo articolo è uscito sul numero 1439 di Internazionale, a pagina 108. Compra questo numero | Abbonati