Se avete ascoltato distrattamente questo tredicesimo album dei Destroyer, avrete pensato che fosse interessante. Abbastanza melodico, con una produzione tipo quelle trendy di metà anni ottanta e qualche beat alla Art of Noise per animare la serata. Ma più attenzione si concede a Labyrinthitis, più si scopre quanto sia amabilmente sbagliato. È un’esperienza sconcertante, intrigante, a volte irritante e di sicuro inebriante. Tutti gli elementi musicali vengono accostati l’uno all’altro in maniera originale. Prendiamo It’s in your heart now: i primi secondi sembrano un incidente ritmico, ma poi tutto si fonde nell’andamento malinconico e oscuro dei sintetizzatori. Nei testi Labyrinthitis diventa ancora più idiosincratico. Si va dalle battute tipo “Hai pagato bei soldi per la tua vista da un milione di dollari” ad assurdità gnostiche e frasi da maestri zen maleducati. L’album finisce in modo splendido sulle note delle tastiere e le percussioni elastiche di The states, che negli ultimi due minuti e mezzo diventa un’eco di note distorte che si trasformano in prospettive alla De Chirico. E poi arriva The last song, una canzoncina che ricorda la teatralità di Lou Reed in Good­night ladies. Se il titolo del disco fa pensare a un vasto labirinto può andare ma sarebbe più adatto interpretare Labyrinthitis nel suo significato letterale: una malattia dell’orecchio, in cui è però la musica a farti perdere l’equilibrio.

David Murphy, Music Omh

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Questo articolo è uscito sul numero 1454 di Internazionale, a pagina 96. Compra questo numero | Abbonati