Di sicuro oggi non c’è carenza di cantautori che attingono alla grande tradizione americana. Troppo spesso però si sente la differenza tra chi possiede un’ispirazione naturale e chi è un semplice imitatore. In passato la carriera di Kevin Morby poteva essere collocata nella seconda categoria: la qualità c’era, ma Morby non sferrava mai pugni dove fa veramente male. This is a photograph cambia tutto. Il musicista texano si è ritrovato a sfogliare foto d’infanzia in seguito a problemi di salute all’interno della sua famiglia. Così ha scavato nella sua storia personale, riflettendo sullo scorrere del tempo. Ne è nato uno di quei rari album che partono bene e riescono solo a migliorare canzone dopo canzone. I suoi maestri (Lou Reed, Leonard Cohen, Bob Dylan) riecheggiano di continuo e la città in cui è stato registrato il disco, Memphis, offre un’ambientazione perfetta per sprazzi di soul e rock’n’roll. Per un album registrato con vari collaboratori, c’è un sentimento unitario, come se fosse suonato dal vivo. Ma prima dell’energia di Rock bottom c’è spazio anche per un dittico ipnotico dalle tinte seppia formato da Disappearing e A coat of butterflies (con Makaya McCraven alla batteria), entrambe infestate dalla morte di Jeff Buckley, affogato nel Mississippi nel 1997. Morby devia dai temi dominanti solo per un’ode alla sua compagna Katie Crutchfield, in arte Waxahatchee. Il disco si chiude davanti a un falò con Goodbye to good times, in cui il musicista canta “non li fanno più così”, riferendosi ad artisti come Tina Turner e Otis Redding. Quando This is a photograph vi avrà catturato (e lo farà), penserete che invece alcuni li fanno ancora così.
Janne Oinonen, The Line of Best Fit

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Questo articolo è uscito sul numero 1462 di Internazionale, a pagina 98. Compra questo numero | Abbonati