A gennaio il papa Francesco ha fatto un’osservazione degna di un economista, sottolineando che il calo delle nascite potrebbe portare un “inverno demografico”. In tutti i paesi europei il tasso di fertilità, cioè il numero di figli che una donna partorisce durante la sua vita, è inferiore a 2,1, cioè al livello necessario per mantenere una popolazione stabile senza il contributo dell’immigrazione. Lo stesso dato oggi si ritrova in molti paesi emergenti, tra cui la Cina e, da quest’anno, l’India. Questa tendenza, ha ricordato il papa, peserà sulla salute economica del mondo.

Da tempo gli economisti considerano inevitabile il rallentamento della crescita demografica. Nel modello della fertilità reso famoso negli anni sessanta dal premio Nobel Gary Becker e da altri ricercatori emerge il ruolo centrale del rapporto tra “quantità e qualità” nella procreazione. Quando un paese diventa più ricco e crescono gli effetti positivi dell’istruzione, le famiglie tendono a investire più risorse su un numero minore di figli. E con le maggiori possibilità lavorative per le donne è sempre più difficile conciliare la carriera con la famiglia.

Molte aree del pianeta hanno già attraversato una transizione demografica, in cui i paesi poveri e con un’elevata fertilità sono diventati ricchi e a bassa fertilità. In alcuni casi la transizione è stata talmente drammatica da provocare un calo della popolazione. Il numero di abitanti del Giappone si è ridotto di tre milioni dopo il picco di 128 milioni registrato nel 2008. Molti demografi sospettano che anche in Cina la popolazione stia diminuendo, per quanto i dati ufficiali di Pechino non lo confermino.

Eppure una scuola emergente di ricercatori ritiene che nel campo della fertilità sia in corso un altro cambiamento. Uno studio di Matthias Doepke, della Northwestern university, negli Stati Uniti, e di alcuni suoi colleghi indica che nei paesi ricchi la fertilità può aumentare (o quanto meno ridursi a un ritmo più lento) se le leggi e i servizi per l’infanzia permettono alle donne di conciliare lavoro e famiglia. Nei paesi in cui ci sono aiuti alla famiglia o in cui i padri ricoprono un ruolo più attivo nella gestione dei figli, ci si aspetterebbe che le lavoratrici mettano al mondo più figli.

Un modo per verificare questa teoria è confrontare i tassi di fertilità di paesi con livelli diversi di reddito e di partecipazione femminile al mercato del lavoro. Nel 1980 i paesi dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse) con tassi più alti di partecipazione delle donne al lavoro avevano tassi di fertilità ridotti. Nel 2000 il rapporto si era invertito: i paesi con tassi più alti di lavoro femminile avevano tassi di fertilità maggiori. Da allora le tendenze sono diventate leggermente meno nette. Tra l’altro la teoria appare meno solida se consideriamo il pil pro capite al posto della partecipazione al mercato del lavoro.

Inversione di tendenza

Tuttavia, esaminando la situazione interna a ogni paese, la nuova tendenza emerge più chiaramente. Uno studio pubblicato nel 2018 da Michael Bar, della San Francisco state university, e dai suoi colleghi ha riscontrato che negli Stati Uniti il rapporto tra istruzione e fertilità, in passato caratterizzato da un andamento decrescente, comincia a dare segnali di risalita. Le donne in possesso di una specializzazione post laurea hanno leggermente più figli di quelle laureate. Un dato simile emerge se facciamo riferimento al reddito. Gli autori dello studio sostengono che la crescente disponibilità di servizi per l’infanzia abbia ridotto le difficoltà per le donne che vogliono conciliare famiglia e carriera.

Anche i governi stanno cercando di modificare il quadro della situazione. Nel 2021 il tasso di fertilità della Corea del Sud è sceso fino al record negativo di 0,81. Ma nel 2019 le regole sul congedo parentale sono state cambiate per offrire ai genitori, che già possono non lavorare nel primo anno di vita dei figli, altri dodici mesi a orario ridotto. Nell’ultimo decennio la percentuale di sudcoreani che ha chiesto il congedo è raddoppiata, passando dal 12 al 24 per cento. L’Ungheria ha garantito alle donne che hanno almeno quattro figli un’esenzione totale a vita dalle tasse, una legge che il primo ministro Viktor Orbán ha presentato come uno strumento per far crescere la popolazione senza ricorrere all’immigrazione. Un rapporto pubblicato dalle Nazioni Unite l’anno scorso indica che la percentuale di paesi con politiche a favore della fertilità è passata dal 20 per cento del 2005 al 28 per cento del 2019.

Non tutti gli interventi hanno la stessa efficacia. Le analisi di Janna Bergsvik, del centro di ricerca Statistics Norway, e dei suoi colleghi indicano che alcune misure (come i sussidi per i servizi all’infanzia) hanno un effetto rilevante, mentre altre (come il congedo parentale) producono risultati inferiori. Doepke ritiene che si ottenga il massimo quando l’intervento della politica è in linea con le dinamiche sociali. I sussidi hanno un effetto relativo se le norme sociali spingono le donne a stare in casa per prendersi cura dei figli. Ma in Danimarca, dove i padri si fanno carico più che in altri paesi della gestione familiare, grazie all’assistenza all’infanzia finanziata dallo stato il tasso di fertilità è passato dall’1,38 del 1983 all’1,72 del 2021.

L’importanza della fertilità è enorme. Nei paesi dell’Ocse la percentuale di persone con più di 65 anni sul totale della popolazione dovrebbe superare il 50 per cento entro il 2050. Nei paesi ricchi, quindi, aumenterà la richiesta di assistenza per gli anziani che, inevitabilmente, sottrarrà personale all’assistenza all’infanzia, facendone aumentare i costi. Senza una rivoluzione produttiva, magari con l’avvento di bambinaie-robot, nei paesi dove lo stato non concede aiuti l’assistenza all’infanzia resterà un privilegio dei ricchi. Inoltre non è chiaro se in futuro continueranno a essere approvate leggi che aiutano le donne a conciliare lavoro e famiglia.

Nel corso degli anni scopriremo quali risposte saranno più efficaci. La pandemia di covid-19, in quest’ottica, potrebbe rivelarsi un bene. Il virus ha spinto molte famiglie a rinviare la decisione di avere un figlio, ma in futuro potrebbe avere anche effetti positivi. La diffusione del lavoro da casa, infatti, potrebbe permettere di conciliare meglio il lavoro e la gestione dei figli. Nel suo discorso, Francesco ha criticato le persone che decidono di occuparsi degli animali domestici invece dei figli. Forse anche questa tendenza finirà per invertirsi. ◆ as

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Questo articolo è uscito sul numero 1481 di Internazionale, a pagina 108. Compra questo numero | Abbonati