Nel cuore di Teheran, in viale della Rivoluzione, a pochi passi dall’università, c’è una centralina elettrica che cinque anni fa è stata al centro di un episodio legato agli sconvolgimenti avvenuti in Iran negli ultimi tempi. Il 27 dicembre 2017 una ragazza di nome Vida Movahed si è arrampicata su quella centralina, si è tolta l’hijab bianco, l’ha infilato su un bastone e l’ha sventolato in aria come segno di protesta contro l’obbligo d’indossare il velo. Immediatamente ha attirato intorno a sé una folla e in meno di dieci minuti è stata arrestata e portata via.

Da allora Movahed è conosciuta come “la ragazza di viale della Rivoluzione”. Per il suo gesto di sfida è stata condannata a un anno di reclusione. Pochi giorni dopo il suo arresto gli operai dell’azienda elettrica nazionale hanno saldato un pezzo di metallo triangolare sulla centralina, in modo da impedire ad altre donne di salirci sopra. Era un tentativo di mettere una pezza su una profonda spaccatura sociopolitica del paese. Cinque anni dopo, al bancone della Pasticceria francese, una delle caffetterie più antiche di Teheran, guardando verso la centralina su cui si era arrampicata Movahed, la prima cosa che si nota è il numero di donne che ci passano davanti senza indossare l’hijab.

La staffetta

Ormai il mondo conosce la storia di Mahsa Jina Amini, la cui morte, dopo l’arresto della polizia religiosa nel settembre 2022, è stata la scintilla che ha spinto la generazione Z dell’Iran (le persone nate tra il 1997 e il 2012) a scendere in piazza cogliendo alla sprovvista l’intero paese. Nei mesi successivi si è scritto e discusso molto, soprattutto fuori dall’Iran, a proposito di una resa dei conti epocale nella Repubblica islamica. L’Iran è una nazione complicata. A Teheran si scherza dicendo che ogni sei mesi questo immenso altopiano fatto di tante identità e lingue si trasforma in un paese diverso. Eppure, la Repubblica islamica resiste.

Il cambiamento degli ultimi mesi è senza dubbio grande. Camminando nella capitale si nota che una parte significativa della popolazione femminile continua a indossare l’hijab. Tuttavia, ci sono anche donne a capo scoperto. È una cosa senza precedenti nella Repubblica islamica. Donne con una grande varietà di acconciature e capelli colorati vanno in giro senza alcuna paura, almeno in apparenza, delle forze di sicurezza spesso schierate lungo le strade principali.

Il movimento di contestazione nato dopo la morte di Amini e la presenza di donne senza hijab per le strade di Teheran sono come una staffetta, in cui il testimone è stato passato per la prima volta quando Movahed è salita sulla centralina. Molte ragazze che hanno manifestato contro il regime non sanno necessariamente cos’è successo cinque anni fa e quanto sia stato decisivo quell’episodio. Lo stesso vale per i ragazzi che mostrano solidarietà con sorrisi e segni di vittoria a chi non indossa l’hijab. In un’affollata piazza nel centro di Teheran, una ragazza a capo scoperto commenta: “Voglio vestirmi liberamente. Mia madre non si toglie quasi mai il velo, ma io non sono come lei. Sono queste differenze e il rispetto per la diversità che rendono bella la vita”.

Il bastone e la carota

Dall’altra parte dell’equazione ci sono più di quarant’anni di una linea rossa che la Repubblica islamica considera un fondamento ideologico: perdere la battaglia dell’hijab per molti esponenti del regime significa una resa, e la resa non ha mai fatto parte del repertorio del regime. Ma cosa fare con tante ragazze in città grandi e piccole che fanno a meno dell’hijab? Una scelta strategica – quella che le autorità sembrano aver adottato per il momento – è non fare nulla. Vedere donne giovani, e non solo giovani, passare davanti alle forze di sicurezza, che non fanno niente per arrestarle, sei mesi fa sarebbe stato inimmaginabile. E anche se nelle preghiere del venerdì e in altre occasioni le fazioni conservatrici invocano le maniere forti contro le donne senza hijab, la tattica delle sfere più alte del potere sembra essere una tacita approvazione della massima “vivi e lascia vivere”.

I portabandiera del movimento, ragazze e ragazzi di licei e università, hanno pagato un pesante tributo negli scontri con le forze di sicurezza. Più di recente, le condanne al carcere e alcune esecuzioni sommarie (per non parlare del freddo invernale) hanno determinato una pausa nelle strade di Teheran e di altre città. Il motivo è duplice: da un lato le autorità hanno liquidato i manifestanti fastidiosi, dall’altro gli arresti e le esecuzioni hanno dissuaso la popolazione. “Vivi e lascia vivere” significa questo: fate quello che volete, basta che non ricominciate a manifestare contro il regime. Non ci interessa se portate l’hijab o comunque per ora faremo finta che non ci interessa. Questo atteggiamento non è in contrasto con il modo in cui agisce una dittatura. È una versione del metodo del bastone e della carota.

Ma mentre le strade sono tranquille, le ragazze e i ragazzi sono ancora attivi on­line: la generazione Z iraniana padroneggia internet come i giovani di tutto il mondo. I filtri e il controllo del regime possono rallentare l’accesso a internet, ma non impedirlo completamente. Un’insegnante di una scuola femminile di Teheran ammette: “Le mie studenti si alzano in piedi nel mezzo della lezione e gridano che non gli interessa seguire i programmi scolastici; vogliono parlare dei problemi del paese. Queste ragazze sono arrabbiate”.

Una giovane che da tre mesi non indossa più il velo dice: “Togliermi l’hijab è il minimo che possa fare. Il governo deve capire che neanche le armi riusciranno più a imporre un pezzo di stoffa sulla testa delle donne. Se un giorno indosserò di nuovo il velo avrò tradito Amini e le altre che sono morte per noi. Ogni giorno passo ore su YouTube e altri siti. Vedo quello che succede fuori da questo paese. Perché dovrebbe esserci un tale divario tra noi e il resto del mondo? Perché il governo deve controllare la nostra vita privata? Perché gli iraniani sono così poveri mentre il paese ha tante ricchezze naturali?”.

Come un vulcano

È da poco passato mezzogiorno su viale della Rivoluzione. Nella mezz’ora che trascorro alla Pasticceria francese, davanti alla celebre centralina passano 61 donne: trentadue non hanno il velo; sedici lo portano con riluttanza, i capelli sfuggono; tredici indossano il chador (il velo che copre tutto il corpo) o il maghnae (che avvolge il volto e il collo), diffuso negli uffici pubblici e nelle scuole. Dentro il locale i numeri sono simili: diverse studenti universitarie senza velo ordinano bevande calde e pasticcini. Una giovane coppia guarda verso il marciapiede. La donna, senza hijab, dice: “Quello è il punto in cui Vida si è tolta l’hijab per la prima volta”. Proprio in quel momento passa un furgone nero accompagnato da venti motociclette della polizia speciale antisommossa.

Oggi le strade di Teheran sono relativamente calme, nonostante i proclami esagerati e spesso fuori contesto su un’imminente rivoluzione trasmessi dai canali televisivi dell’opposizione. Come direbbero le ragazze e i ragazzi della generazione Z: “Il movimento è in pausa”. Lo paragonano a un vulcano attivo che erutta ogni tanto, in attesa della grande eruzione che accadrà un giorno. Una di loro dice: “Siamo le braci che covano sotto la cenere, in ogni momento potremmo prendere fuoco. Il regime e le sue truppe d’assalto devono mettersi in testa una volta per tutte che niente sarà come prima in Iran”.

È curioso notare che il regime e i ragazzi potrebbero avere lo stesso obiettivo: non tornare al passato. Perché altrimenti la presenza di donne senza hijab suscita così poco interesse? Si potrebbe sostenere che, dopo più di quarant’anni, la Repubblica islamica abbia imparato l’arte di consentire qualche scossa (a volte anche molto forte) con l’obiettivo di prevenire qualcosa di entità ben più grande.

Questa è una storia ancora in divenire. ◆ fdl

La persona che ha scritto questo articolo lavora come giornalista a Teheran e ha scelto di restare anonima.

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Ancora in strada

◆ Dopo settimane di relativa calma, il 16 febbraio 2023 i manifestanti sono scesi di nuovo in strada in diverse città del paese. Le proteste, andate avanti tutta la notte, sono state organizzate per commemorare i quaranta giorni dall’esecuzione di due uomini accusati di far parte del movimento di contestazione. Mohammad Mehdi Karami e Seyyed Mohammad Hosseini sono stati impiccati l’8 gennaio; la condanna a morte di altri due uomini era stata eseguita a dicembre. Secondo le organizzazioni per i diritti umani, da quando sono scoppiate le proteste a metà settembre le forze del regime hanno ucciso cinquecento persone e ne hanno arrestate ventimila. Iran Wire


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Questo articolo è uscito sul numero 1500 di Internazionale, a pagina 24. Compra questo numero | Abbonati