Nel loro nuovo disco i Tinariwen, pionieri di quello che è stato soprannominato “desert blues”, (anche se questa espressione rende poca giustizia alla musica complessa e diversificata del Sahara), hanno scritto la colonna sonora per un mondo che ancora non riesce a liberarsi dei pregiudizi coloniali verso la cosiddetta world music. Ispirato dai disordini politici in Mali, ­Amatssou­ è una testimonianza delle lotte dei tuareg contro l’estremismo islamico. Con la pedal steel del produttore Daniel Lanois presente in due brani e Fats Kaplin e Wes Corbett al banjo e ai violini, il nuovo album unisce le caratteristiche chitarre dei Tinariwen con il groove delle percussioni e il country statunitense. Per fortuna la combinazione non si risolve in un’americanizzazione delle radici tuareg del gruppo, ma in un abbellimento del suo stile. Registrato dentro una tenda in un’oasi algerina, Amatssou è forse il secondo lavoro più innovativo dei Tinariwen dopo Amadjar del 2019. Fin dall’inizio, c’immerge in un paesaggio ricco di canti basati sul botta e risposta e di ritmi complessi. L’album mette insieme geografie opposte, ma resta coerente con il percorso della band.
Shrey Kathuria, Loud and Quiet

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Questo articolo è uscito sul numero 1512 di Internazionale, a pagina 90. Compra questo numero | Abbonati