Nel 2013 il giornalista statunitense Paul Salopek ha cominciato un viaggio a piedi intorno al mondo con lo scopo di ripercorrere la prima migrazione dell’Homo sapiens fuori dall’Africa, passando attraverso il Medio Oriente e l’Asia, poi via mare fino all’Alaska, quindi giù verso la Terra del Fuoco all’estremità meridionale delle Americhe, l’ultimo luogo in cui sono arrivati gli umani, intorno all’anno 8000 aC. Lo ha chiamato “Out of Eden walk”, il cammino fuori dall’Eden. Immaginava che ci sarebbero voluti sette anni. Undici anni dopo, è ancora in viaggio.

Salopek ha attraversato a piedi deserti e montagne, pianure fluviali e foreste tropicali, percorrendo vie di pellegrinaggio e rotte commerciali, sulle orme di Alessandro Magno e Mao Zedong. In Cisgiordania gli hanno sparato, è stato catturato da un gruppo armato curdo, in Pakistan è stato detenuto per due giorni e deportato; è stato fermato così spesso dalla polizia che ha deciso di registrare questi incontri su una mappa della libertà di movimento. Ha viaggiato a dorso di cammelli, muli e cavalli da soma attraverso le sabbie dell’Arabia e le steppe senza fine dell’Asia centrale. Ha seppellito riserve di acqua a intervalli di 25 chilometri per attraversare il deserto del Kizilkum, in Uzbekistan, è rimasto intrappolato in una bufera di neve nelle montagne del Pamir, in Tagikistan, e ha aiutato un uomo che aveva perso una gamba in una frana. “Era allegro, faceva battute mentre gli legavamo un laccio emostatico”, ricorda.

Ogni tanto Salopek si ferma per scrivere ed esplorare. In Georgia ha aspettato otto mesi per un visto iraniano che non è mai arrivato, finendo per innamorarsi e sposarsi con una documentarista. È rimasto per più di un anno in Birmania a causa della pandemia e poi ha dovuto lasciare il paese quando la giunta militare si è fatta troppo minacciosa.

L’Out of Eden walk è sostenuto in gran parte dalla rivista National Geographic, che cura il sito del progetto, su cui Salopek pubblica i suoi dispacci. Oggi il giornalista ha 62 anni. È alto e snello e dice che i capelli gli sono diventati bianchi in Cina. Spiega che il suo cammino “non è una spedizione”, ma un modo di rallentare per raccogliere storie, “come perline su un filo”. Finora ha scritto centinaia di migliaia di parole, occupandosi di scavi archeologici e di civiltà scomparse, d’industrie e artigiani, d’inquinamento e di tutela dell’ambiente. Ha fatto una cosa che molti giornalisti gli invidierebbero: si è inventato il lavoro perfetto. Lui lo chiama slow journalism, giornalismo lento. L’ho raggiunto in Giappone. Siamo partiti da Fukuoka, una città sulla più meridionale delle quattro isole principali del Giappone, alle 7 del mattino di un martedì. Era metà settembre, ma era caldissimo. Portavo in spalla un piccolo zainetto – “non più di cinque o sei chili”, aveva consigliato Salopek – con dentro quaderni, una giacca impermeabile, un cambio, due paia di mutande e il minimo indispensabile di articoli per l’igiene personale, ma niente computer portatile, trucco o scarpe di ricambio. Ad accompagnarci c’era Koriyama Soichiro, fotografo che si è prestato anche a fare da traduttore, interlocutore e guida. Le nostre tenute da trekking ci facevano risaltare in mezzo ai pendolari ben vestiti.

Tempra d’acciaio

Salopek è un asceta; non possiede quasi nulla al di fuori degli indumenti che porta addosso e degli attrezzi del mestiere: computer portatile, cellulare e macchina fotografica. Non ha una casa, e possiede pochissimo denaro. L’Out of Eden walk è un progetto senza scopo di lucro; il suo “stipendio” va in un conto di riserva usato per le spese operative. “Siamo spesso in rosso”, dice. I suoi modi sono pacati, umili, quasi da santo, quando inclina la testa per ascoltare con attenzione le persone che incontra lungo la strada. Ma la sua mitezza nasconde una tempra d’acciaio. È il tipo di persona che prende sempre le scale al posto delle scale mobili, indipendentemente dal peso dello zaino, salendo i gradini a due alla volta.

La voglia di viaggiare gli è stata trasmessa fin da bambino. Nel 1968, quando aveva cinque anni, suo padre si trasferì con la famiglia in un piccolo villaggio vicino a Guadalajara, in Messico. Lui e i suoi quattro fratelli maggiori sono cresciuti tra i contadini poveri, frequentando le scuole locali. “Mio padre era un po’ come il padre di Mosquito coast”, dice riferendosi a un romanzo e a un film su uno statunitense che, insoddisfatto dello stile di vita consumistico, va in cerca di una vita più semplice in America Latina.

Per tutto il tempo avevamo camminato dentro la nostra storia. La storia era il caldo

Dopo essersi laureato all’università della California, Salopek ha svolto vari lavori: bracciante, cowboy, pescatore di gamberi, minatore d’oro. Ancora ventenne, faceva due lavori a Roswell, nel New Mexico, quando la sua padrona di casa, ex redattrice di riviste, convinse il quotidiano locale ad assumerlo come cronista giudiziario. Continuò a fare il giornalista fino a vincere due premi Pulitzer. Uno per aver scritto del genoma umano (“Fondamentalmente, siamo tutti uguali”, era la sua conclusione). L’altro per essersi occupato di una guerra in Congo, in cui i combattenti erano fermamente convinti che non siamo tutti uguali e che la tribù vicina era il nemico. Dopo un decennio trascorso in Africa, decise di cambiare il modo di scrivere del mondo; di concentrarsi sulle persone comuni che vivono lontano dalle prime pagine, ma le cui storie rappresentano questioni più grandi.

Oggi Salopek sta attraversando quella che definisce “un’età d’oro della migrazione”. Quasi ovunque ha visto persone in movimento. Si è imbattuto nelle ossa di migranti nel deserto al confine tra Etiopia e Gibuti; ha incontrato rifugiati siriani che raccoglievano pomodori in Giordania; ha osservato gli abitanti che hanno lasciato i loro villaggi nel Punjab. Oggi, sottolinea, una persona su sette vive o lavora lontano dal proprio luogo di nascita, e “i fattori di spinta e attrazione del movimento umano rimangono uguali a quelli dell’età della pietra”: scarsità di risorse, cambiamenti climatici e ricerca di pascoli più verdi.

È stato in parte grazie alle evidenze genetiche che gli scienziati sono riusciti a mappare le prime tratte migratorie, per mostrare come gli esseri umani hanno colonizzato il pianeta dopo aver lasciato l’Africa tra i 60mila e i 90mila anni fa. Quando tiene delle conferenze sul progetto, a Salopek piace ricordare alle persone che tutti condividiamo gli stessi geni e le stesse preoccupazioni: perché non sono amato abbastanza, odio il mio capo, sono preoccupato per i miei figli.

Abbiamo camminato per 12-25 chilometri al giorno con una temperatura di 35 gradi, passando davanti a una banale carrellata di concessionarie d’auto, centri commerciali e sale di pachinko (gioco d’azzardo simile al flipper). Abbiamo incontrato pochi alberi e poca ombra. Ci siamo spesso fermati per prendere acqua dai distributori automatici e per rinfrescarci nei minimarket. “Mi sento come se la mia testa fosse nella bocca di un animale”, ha detto Salopek dopo qualche giorno. Quando mi sono comparse delle vesciche, mi ha comprato dei cerotti. “Ogni cultura ha la sua cura per le vesciche”, ha detto, “in Georgia è la chacha (un liquore), in Arabia Saudita il grasso di cammello”.

Abbiamo avanzato a fatica, sudati, appiccicosi. Auto e treni ci sfrecciavano accanto; quasi nessun altro andava a piedi. Le persone si spostavano da scatole con l’aria condizionata ad altre scatole con l’aria condizionata, viaggiando in auto con l’aria condizionata. Noi eravamo, letteralmente, dei diversi. Il caldo faceva restare le persone al chiuso, precludendo a Salopek la possibilità di quegli incontri casuali che lui adora.

A Fukuma, una città dormitorio, ci siamo organizzati per incontrare in un ristorante di tempura Tone Shiori, un’attivista locale in lizza per l’elezione a sindaco. Con grande fervore, Tone si lamentava del conservatorismo giapponese e della mancanza di donne nelle cariche pubbliche. La discriminazione nei confronti delle donne è “una delle cose che accomuna tutto il mondo”, dice Salopek. Le donne si svegliano presto per fare le faccende domestiche, e vanno a letto tardi. Gli uomini dominano lo spazio pubblico, possiedono la gran parte delle proprietà e maltrattano le mogli. A Salopek è capitato varie volte, in zone remote dell’Asia centrale, d’incontrare una donna ad aspettarlo sulla strada fuori dal villaggio, che ha raccontato in lacrime le ingiustizie subite. Queste donne “ci hanno affidato i loro segreti perché noi saremmo andati via”. In Corea del Sud, dove un numero senza precedenti di donne sta rinunciando al matrimonio e ai figli, Salopek ha trovato “scioccante” la disinvoltura dei comportamenti misogini, il modo in cui gli uomini parlavano delle donne quando erano seduti attorno a un tavolo con una birra.

Si diventa amici

È stato difficile trovare delle compagne di cammino donne, si lamenta Salopek. Ha camminato con più di cento persone: giornalisti e jihadisti, mandriani di cammelli, biologi, storici, artisti e un giudice che era stato radiato per corruzione. In Corea ha camminato con un esperto di rane. Alcune persone si uniscono a lui per pochi giorni, altre per settimane. Sua moglie lo incontra lungo la strada, come fanno anche amici e familiari. “Camminare con qualcuno è un’esperienza molto intima”, dice Salopek. “Ti sblocca qualcosa nel cuore. Si diventa subito amici”.

Negli anni, intorno al progetto Out of Eden walk è nata una rete. Salopek incoraggia i suoi compagni di cammino a collaborare al sito con le loro storie. Alcuni hanno ottenuto un finanziamento dal National Geographic o da altri enti per i loro progetti. Un compagno saudita è diventato uno scrittore di racconti online con centinaia di migliaia di follower; un altro, indiano, ha fondato un ente non profit per progetti di conservazione ambientale. Una donna con cui ha camminato sta tentando d’istituire un sentiero escursionistico nazionale in Cina.

Lungo il tragitto, Salopek spesso tiene laboratori sul giornalismo lento. Don Belt, un professore all’università di Richmond in Virginia, amico di Salopek, manda i suoi studenti a camminare in aree povere di Richmond per scoprire storie diverse dal solito. La Harvard graduate school of education, tra gli sponsor del progetto, ha sviluppato un percorso formativo di sei-otto settimane per le scuole. Più di 70mila bambini in trenta paesi hanno seguito il cammino di Salopek e hanno scritto i loro progetti.

Con il passare del tempo, i dispacci di Salopek si sono evoluti, passando da un taglio giornalistico a uno più impressionistico. Gli argomenti tornano e si sovrappongono. “La crisi idrica in India, dove metà della popolazione non ha accesso a una quantità sufficiente di acqua pulita, è legata a una storia che ho scritto su delle donne che lavorano in un mattonificio, perché costrette ad abbandonare le loro case per via della mancanza d’acqua”.

Il nostro sesto giorno insieme, una domenica torrida, ci siamo fermati in un McDonald’s per una dose di zuccheri e sodio. Al tavolo accanto a noi era seduto un uomo con una camicia tutta gonfia, dotata di piccoli ventilatori che la riempivano d’aria e lo mantenevano fresco. Improvvisamente abbiamo capito: per tutto quel tempo avevamo camminato dentro la nostra storia. La storia era il caldo.

L’estate scorsa è stata la più calda mai registrata in Giappone. Più di cinquanta persone sono morte, migliaia sono state ricoverate. “Ho camminato attraverso il cambiamento climatico”, ha detto Salopek. “Qui nella periferia giapponese per la maggior parte delle persone è solo una seccatura, ma in altri luoghi è già una questione di sopravvivenza”.

In Etiopia, dove ha cominciato la sua odissea, si era trovato a dover schivare i combattimenti tra le tribù Afar e Issa che si contendevano i pascoli sempre più limitati. In Kazakistan ha visto la steppa ricoprirsi di verde dopo delle piogge insolitamente abbondanti, con delle erbe sconosciute perfino agli anziani del posto. In Georgia ha assistito a una frana che ha fatto scivolare un intero quartiere di Tbilisi dentro il fiume. In Afghanistan ha incontrato contadini che gioivano degli eccezionali raccolti di albicocche, perché le estati si sono fatte più calde e i ghiacciai si stanno sciogliendo. Non era riuscito a fargli capire che nel giro di pochi anni i ghiacciai sarebbero scomparsi e la loro terra sarebbe diventata un deserto. Ovunque, ha detto Salopek, i contadini sono preoccupati; il clima è sempre più anomalo. L’ultimo giorno trascorso insieme abbiamo parlato con dei contadini che curavano dei fazzoletti di terra circondati da strade e palazzi. “Ogni anno è più caldo”, ci ha detto Takami Tsunehiro, 81 anni, che con la moglie coltivava lo stesso pezzo di terra da cinquant’anni. A un certo punto ha smesso di dissotterrare le patate dolci e ha posato il suo falcetto. “Una volta c’erano quattro stagioni, ora ci sono solo l’estate e l’inverno. O c’è troppo sole o fa troppa pioggia”. Altri contadini la pensavano allo stesso modo: il caldo ha un duro impatto sulle piante di riso, e lavorare all’aperto sta diventando più rischioso.

“Naturalmente so cos’è il cambiamento climatico a livello razionale”, ha detto Salopek durante una sosta per reidratarci in un ristorante. “Ma non l’avevo mai percepito nel mio corpo come negli ultimi tre mesi. Quando camminavo in Corea del Sud in estate non c’era nessuno per strada. Era come un paesaggio fantasma. C’erano delle colonnine di raffreddamento con l’acqua nebulizzata; e lì ho pensato per la prima volta: ‘Ok, questo è davvero distopico’. Immaginavo che a settembre in Giappone sarebbe stato più fresco, ma non è così, e ora sento che sta avendo un impatto su di me. Mi sta danneggiando”.

In mezzo alle risaie

Alla fine della giornata ci siamo disfatti dei nostri zaini e siamo andati a fare una passeggiata tra le risaie. Il sole era basso e dorato. Gli aironi camminavano con superbia lungo il ciglio erboso, le libellule guizzavano mentre passeggiavamo lungo un canale pieno di pesci, tartarughe e anatre. Il crepitio effervescente delle cicale proveniente da una foresta di bambù era tremendo. Quello è stato l’unico tratto di campagna che abbiamo attraversato.

Tutti gli alberghi del posto erano pieni, così abbiamo dormito in dei cubicoli in un internet café, un locale pulito in modo impeccabile e destinato ai videogiochi, spesso usato come rifugio da persone senza fissa dimora, con una palestra, docce e un’immensa biblioteca di manga. Il mattino successivo ho preso il treno veloce per tornare a Fukuoka, da dove eravamo partiti otto giorni prima. Dai finestrini del vagone s’intuivano le forme indistinte delle periferie di edifici grigi, alternate al buio delle gallerie. Il viaggio di ritorno è durato mezz’ora. ◆ fdl

Biografia

1962 Nasce a Barstow, negli Stati Uniti.
1968 Trasloca in Messico con la famiglia.
1984 Si laurea in biologia all’università di Santa Barbara.
1985 Quando la sua moto si rompe a Roswell, nel New Mexico, accetta un lavoro da giornalista per il quotidiano locale.
1998 Vince il suo primo premio Pulitzer.
2001 Vince il secondo Pulitzer.
2013 Comincia un viaggio del mondo a piedi partendo dall’Etiopia. Il viaggio doveva durare sette anni ma è ancora in corso.


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Questo articolo è uscito sul numero 1604 di Internazionale, a pagina 76. Compra questo numero | Abbonati