A nove anni Billy Woods scrisse una storia su un malvagio Golliwog (un personaggio della letteratura per l’infanzia che somiglia a una bambola di pezza nera). A sua madre, professoressa giamaicana di letteratura, non piacque. Suo padre, esule marxista dallo Zimbabwe, portava le cicatrici della guerra politica. Questi fantasmi non sono solo parte del passato di Woods, sono la struttura stessa della sua musica. Non parlano: infestano. Oggi è più maturo, ma dialoga ancora con quell’ombra. Golliwog è una resa dei conti con simboli ereditati e identità superate. L’album, formato da diciotto brani, comincia tra crepitii lo-fi e atmosfere cupe. In Waterproof mascara una donna piange tra rovine coloniali. In Misery, prodotta da Kenny Segal, Woods si muove come un fantasma. Il finale contiene una frase del romanzo Amatissima di Toni Morrison. In Cold sweat l’orrore dell’impotenza assume logica onirica: sei su un tavolo, circondato da discografici, costretto a ballare. Poi ti risvegli accanto a un’ex fidanzata che non hai mai lasciato. Niente finisce davvero. Woods esplora il disfacimento causato da storia, fama e violenza. Il titolo stesso rielabora un insulto razzista e lo trasforma in un’armatura. Golliwog, più che un album, è una casa infestata. Ogni verso apre una porta sulla memoria. E, anche se disorientante, resta coerente. Woods è il filo conduttore: misurato, spettrale, tagliente.
Francis Buseko, The Quietus

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Questo articolo è uscito sul numero 1614 di Internazionale, a pagina 88. Compra questo numero | Abbonati