Sono tornata a Lisbona dopo tanto tempo per il festival IndieLisboa. Ho vissuto in Portogallo più di vent’anni fa e i miei amici di lì mi avevano avvisato: tutto è cambiato, è pieno di turisti e ogni giorno è una battaglia per mantenere gli spazi della vita cittadina. È vero: la città è ormai un parco a tema, tra azulejos e tram pittoreschi. La Lisbona che ho conosciuto in passato somigliava alla città di Mon oncle di Jacques Tati: un centro storico silenzioso, pieno di difficoltà e povertà, di una bellezza da togliere il respiro, dove abitava ancora l’anima del popolo, e dei quartieri più esterni chiassosi, moderni ed efficienti, dove viveva la borghesia. Ora la città di Tati si è invertita: mon oncle non vivrebbe più in un palazzo sgarrupato, ma vicino al centro commerciale Cristoforo Colombo. Ci si lamenta che i poveri hanno venduto l’anima, ma non ci si ricorda che qualcuno ha voluto comprarla. La sera saliamo sull’ultimo miradouro (belvedere) ancora non troppo turistico. Lisbona risplende bellissima sotto di noi, eppure c’è un odore acre nell’aria che viene dal buio dietro la città. Mi spiegano che sono gli oleifici industriali del sud, dove si produce olio d’oliva economico con metodi terrificanti per alimentare un mercato impazzito, e che stanno riempiendo l’Alentejo di coltivazioni intensive. In questo odore c’è un’angoscia più grande di un centro storico invaso dai turisti. Là fuori, in quel silenzio, si gioca la vera battaglia.

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Questo articolo è uscito sul numero 1567 di Internazionale, a pagina 16. Compra questo numero | Abbonati