La conferenza stampa del primo ministro Benjamin Netanyahu è stata convocata in tutta fretta il 18 gennaio, e si è tenuta immediatamente prima che Channel 12 trasmettesse l’intervista a Gadi Eisenkot, ministro del gabinetto di guerra ed ex capo di stato maggiore dell’esercito israeliano.

L’apparizione pubblica di Netanyahu non è stata un evento che ispira fiducia. Alla crescente diffidenza della maggioranza degli israeliani verso l’uomo che dovrebbe condurre la guerra si aggiungono i timori di un ulteriore aumento delle tensioni nel nord del paese. Due attacchi mortali compiuti il 20 gennaio – uno nel cuore della capitale siriana Damasco e un altro vicino alla città di Tiro, nel sud del Libano – sono stati attribuiti a Israele.

L’ultima prova di Netanyahu, per ora, ha lasciato un’impressione triste e deludente. Il primo ministro sembra in campagna elettorale. La confusione e la paura che trasparivano dalle sue apparizioni dopo il sanguinoso attacco di Hamas nel sud di Israele il 7 ottobre hanno lasciato il posto all’arroganza e all’aggressività, rivolte soprattutto ai giornalisti che hanno osato fare domande più dure di quelle di Channel 14, il “canale di casa”, che ancora una volta, miracolosamente, ha ottenuto il diritto di fare la prima domanda. Netanyahu ha litigato con i giornalisti e si è ostinatamente rifiutato di ammettere qualsiasi errore da parte sua o di assumersi una responsabilità anche parziale delle scelte fallimentari che hanno reso possibile lo scoppio della guerra.

La versione di Eisenkot

Su tutto gravava la consapevolezza che per Netanyahu in questo momento evitare di decidere è di fatto la linea principale. Quando non si è scontrato direttamente con i giornalisti, ha promesso una lunga guerra (almeno un anno), si è rifiutato di parlare di come portare a termine l’offensiva contro Hamas a Gaza, ha evitato riferimenti diretti al dramma degli ostaggi israeliani nella Striscia, le cui vite sono in pericolo, e ha tralasciato la situazione sempre più complicata in Cisgiordania.

Le sue affermazioni erano in netto contrasto con le posizioni espresse due ore dopo da Gadi Eisenkot nell’intervista con la giornalista Ilana Dayan. La tragedia personale del ministro – suo figlio Gal Meir Eisenkot è stato ucciso in combattimento a Gaza all’inizio di dicembre – ha generato un grande interesse tra gli israeliani. La sincerità e la schiettezza con cui Eisenkot ha parlato del lutto della sua famiglia hanno suscitato molta compassione, ma anche le parti meno personali del suo intervento possono far capire molte cose. Eisenkot ha ammesso che le autorità israeliane non stanno dicendo la verità sulla guerra, ha evitato di dire che si fida di Netanyahu – ha fiducia, ha affermato, nei meccanismi decisionali del gabinetto di guerra –, ha chiesto rapidi progressi verso un accordo per gli ostaggi, anche a caro prezzo, e ha proposto di tenere elezioni anticipate entro pochi mesi.

Il giorno dopo

Le complesse circostanze militari e politiche incidono sul processo decisionale del gabinetto di guerra: Netanyahu e il ministro della difesa Yoav Gallant, anche se concordano sul proseguimento della guerra e sul modo di condurre le trattative per gli ostaggi, sono ai ferri corti sul piano personale e a malapena si parlano. Nelle ultime due settimane Gallant ha espresso apertamente il suo sostegno a dei piani per il “giorno dopo”, che Netanyahu rimanda per timore dei suoi alleati di estrema destra. Gallant non va d’accordo con Eisenkot, mentre ha un buon rapporto con il capo del Partito di unità nazionale Benny Gantz.

Tutti e tre questi generali in pensione nutrono profondi sospetti verso le intenzioni del primo ministro, e sono insoddisfatti del suo operato. Gallant è preoccupato per la sicurezza del paese. La questione è se questa preoccupazione si tradurrà in mosse politiche e se si troveranno alleati tra i componenti del gabinetto e i deputati del Likud, il partito del premier. Al momento sembra che, in fatto di battaglie politiche, il primo ministro sia più determinato e calcolatore di tutti i suoi rivali.

Da sapere
Bilancio in crescita

◆ Secondo le autorità di Hamas, l’offensiva israeliana nella Striscia di Gaza ha causato la morte di 25.490 persone, più dell’1 per cento della popolazione del territorio e in grande maggioranza donne, bambini e adolescenti. L’attacco di Hamas del 7 ottobre 2023 ha provocato 1.140 vittime in Israele, secondo un conteggio dell’Afp basato sugli ultimi dati israeliani disponibili.
◆ Un portavoce dell’esercito israeliano ha annunciato il 23 gennaio 2024 che ventuno riservisti erano morti il giorno prima nella Striscia di Gaza. Tre ufficiali dei paracadutisti inoltre erano stati uccisi a Khan Yunis. Si tratta del bilancio giornaliero più pesante per l’esercito dall’inizio dell’offensiva di terra il 27 ottobre. In tutto hanno perso la vita più di duecento soldati israeliani.
◆ Al termine di un incontro con il loro collega israeliano Yisrael Katz, il 22 gennaio i ministri degli esteri dell’Unione europea hanno confermato che il governo israeliano non è disposto a prendere in considerazione una “soluzione a due stati”, che prevede la nascita di uno stato palestinese. Il capo della diplomazia europea Josep Borrell ha reagito dicendo: “La soluzione a due stati è l’unica possibile, a meno che Israele non voglia trasferire l’intero popolo palestinese o ucciderli tutti. Per ora non sta facendo altro che piantare i semi dell’odio per le generazioni future”.
◆ Il 23 gennaio l’esercito israeliano ha annunciato di aver circondato la città di Khan Yunis, nel sud della Striscia di Gaza, dove si sono rifugiate centinaia di migliaia di persone fuggite dai bombardamenti israeliani nel nord. Afp


Dopo una pausa di un mese, il 19 gennaio il presidente degli Stati Uniti Joe Biden ha ripreso le comunicazioni telefoniche con Netanyahu. Le aveva interrotte dopo il rifiuto del primo ministro israeliano di approvare un accordo per sbloccare le entrate fiscali dell’Autorità nazionale palestinese, che erano state congelate. Il 18 gennaio il gabinetto di sicurezza ha discusso un complicato compromesso che prevede un trasferimento di quei fondi attraverso la Norvegia, e il giorno successivo c’è stata la telefonata. L’ufficio del primo ministro ha definito “buona” la conversazione con Biden.

Alcuni rappresentanti della Casa Bianca hanno lasciato intuire alla stampa statunitense che Biden ha fatto pressione su Netanyahu perché accetti la creazione di uno stato palestinese dopo la fine della guerra, e Netanyahu non ha respinto l’idea. È una linea decisamente diversa da quella tenuta in Israele, dove il primo ministro si presenta come l’unico in grado d’impedire la nascita di uno stato palestinese. In deroga alle consuetudini, l’ufficio del primo ministro ha diffuso una dichiarazione durante lo Shabbat, la festa del riposo che si celebra di sabato, per precisare che Netanyahu resta contrario alla sovranità palestinese sulla Striscia di
Gaza.

Momenti decisivi

L’urgenza di salvare i 136 ostaggi trattenuti da Hamas, alcuni già dichiarati morti dall’esercito, non può essere sottovalutata. Il 20 gennaio sono emersi timori per la salute di Ohad Yahalomi, riconosciuto in un video pubblicato da un’organizzazione palestinese nella Striscia di Gaza. La settimana precedente altri due ostaggi, Yossi Sharabi e Itay Svirsky, sono stati dichiarati morti. La sorella di Svirsky, Merav, ha dichiarato che la famiglia sa che è stato ucciso dai suoi sequestratori dopo un attacco israeliano nella zona. L’esercito ha risposto dicendo che quando aveva attaccato non sapeva che Svirsky fosse nelle vicinanze. Per Merav Svirsky ci sono altri casi simili.

Agli occhi della maggior parte dei familiari non solo i tentativi dell’esercito di liberare gli ostaggi non stanno portando a nulla – a eccezione del caso di Ori Megidish, un soldato detenuto da Hamas e salvato alla fine di ottobre –, ma operazioni azzardate, e perfino imprecise, mettono in pericolo la vita delle persone.

La sera del 20 gennaio alcune famiglie hanno allestito un accampamento di tende davanti alla casa privata di Netanyahu a Cesarea, tra Tel Aviv e Haifa. Nei prossimi giorni è probabile che assisteremo a gesti di protesta più eclatanti, perché la sensazione è che il tempo stia per scadere (il 22 gennaio un gruppo di parenti degli ostaggi ha fatto irruzione in parlamento, chiedendo interventi urgenti per il loro rilascio).

Le proposte di Egitto e Qatar per un nuovo accordo stanno avanzando lentamente, nonostante l’ottimismo che l’amministrazione Biden cerca di comunicare.

Sul fronte settentrionale, secondo le notizie provenienti da Siria e Libano, in due ore sono state condotte due operazioni che hanno causato vittime. Prima è stato segnalato un attacco aereo israeliano che ha colpito un edificio a Damasco usato dai Guardiani della rivoluzione iraniani. Cinque affiliati dell’organizzazione sono stati uccisi, tra cui il capo dell’intelligence della Forza Quds e il suo vice. Poi vicino a Tiro un drone israeliano avrebbe colpito un veicolo uccidendo due palestinesi. Uno di loro era il collegamento tra la Forza Quds iraniana e Hamas in Libano.

Se queste notizie sono vere, è chiaro che, come nell’attacco di dicembre a Damasco in cui è stato ucciso il generale iraniano Razi Mousavi, Israele sta cercando di approfittare della situazione per colpire chi sta guidando il progetto iraniano di armare Hezbollah, un piano che a ottobre ha accelerato.

In Siria negli ultimi tre mesi e mezzo ci sono state decine di attacchi aerei israeliani. Quello vicino a Tiro esce dai limiti geografici dei combattimenti, ma invece di essere contro Hezbollah ha preso di mira Hamas, considerato il suo alleato minore nella campagna in Libano. L’operazione era stata preceduta dall’uccisione, anche questa attribuita a Israele, dell’alto funzionario di Hamas Saleh al Arouri all’inizio di gennaio.

Il 19 gennaio il Washington Post ha scritto che Israele ha concesso agli statunitensi qualche altra settimana per i negoziati, nel tentativo di risolvere pacificamente la crisi alla frontiera libanese e far ritirare Hezbollah dall’area. La vera scadenza sarà probabilmente posticipata. Secondo fonti statunitensi e libanesi contattate dal quotidiano, l’inviato di Biden nella regione, Amos Hochstein, avrebbe presentato alle parti una proposta per spingere Hezbollah qualche chilometro più a nord e dare all’esercito libanese nel sud del paese un ruolo più attivo.

La guerra, su tutti i fronti, sta cambiando forma. Nella Striscia di Gaza ci sono meno truppe israeliane, concentrate nell’area di Khan Yunis e in altre zone per compiere operazioni mirate contro Hamas. Nel nord sta emergendo una sfida più grande, perché la tensione cresce ed è difficile far tornare alle loro case gli abitanti delle comunità di confine. Israele sembra avvicinarsi a dei momenti decisivi, anche se il primo ministro non dà segni di voler prendere una decisione ed è impegnato a promettere la vittoria totale in un lontano futuro.

Senza una strategia, la palla ora è per lo più nel campo della politica, e dipende dalle decisioni del gabinetto di guerra, di Gantz e di Eisenkot. ◆ fdl

Mar Rosso
Certezze e timori

Il 23 gennaio i miliziani huthi hanno annunciato che risponderanno ai nuovi bombardamenti condotti durante la notte da Stati Uniti e Regno Unito contro le loro postazioni nello Yemen. Quella statunitense e britannica è stata la seconda operazione congiunta messa a punto in reazione agli attacchi contro le navi mercantili nel mar Rosso e nel golfo di Aden compiuti nelle ultime settimane dai miliziani, che dicono di agire a sostegno dei palestinesi della Striscia di Gaza. Questi attacchi hanno costretto molti armatori a sospendere il transito attraverso una zona dove passa il 12 per cento del commercio globale. Il corrispondente di Al Araby al Jadid da Sanaa, la capitale dello Yemen controllata dagli huthi dal 2014, riferisce che il rumore dei bombardamenti aerei anglo-statunitensi, i più violenti dell’inizio dell’operazione, è stato sentito in tutta la città.
Il timore di un’escalation nel mar Rosso ha spinto l’Egitto ad aprire nuovi canali di comunicazione con gli huthi, spiega il quotidiano panarabo. Lo stretto di Bab el Mandeb è fondamentale per il flusso nel canale di Suez e quindi per le entrate del governo. Fonti egiziane hanno rivelato che ci sono stati “intensi contatti con i leader del movimento huthi e con l’Iran”, in seguito ai quali Il Cairo ha confermato che non parteciperà agli attacchi internazionali contro i miliziani. L’Egitto ha anche avvertito l’amministrazione statunitense del pericolo di una soluzione militare alla crisi del mar Rosso: gli iraniani potrebbero bloccare il passaggio attraverso lo stretto di Hormuz a tutte le navi dirette verso il Golfo.
Il 22 gennaio migliaia di persone hanno partecipato a una manifestazione a sostegno dei palestinesi di Gaza a Marib, una città nell’est dello Yemen diventata rifugio di molti abitanti in fuga dalle milizie huthi. Il giornale yemenita Al Sahwa, ostile agli huthi, ricorda che i manifestanti hanno ribadito di considerare il sostegno occidentale a Israele “un fallimento morale e una palese violazione di tutte le leggi internazionali”. ◆

Questo articolo è uscito sul quotidiano israeliano Haaretz.


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Questo articolo è uscito sul numero 1547 di Internazionale, a pagina 22. Compra questo numero | Abbonati