Quando il 29 novembre Twitter ha annunciato che Parag Agrawal avrebbe preso il posto di Jack Dorsey nel ruolo di amministratore delegato, l’entusiasmo e l’orgoglio degli indiani hanno inondato la piattaforma. “È il virus indiano, il ‘virus degli amministratori delegati della Silicon valley’, per il quale non c’è un vaccino?”, scherzava l’imprenditore Anand Mahindra.

Agrawal si aggiunge alla lista di dirigenti del settore tecnologico statunitense che sono nati in India. Negli anni ottanta, i laureati degli istituti indiani di tecnologia (Iit) – le principali facoltà d’ingegneria del paese, finanziate dal governo – cominciarono a emigrare nella Silicon valley in cerca di opportunità di lavoro, e da allora continuano a infrangere barriere.

Tra gli amministratori delegati più importanti ci sono Sundar Pichai di Google e della casa madre Alphabet; Satya Narayana Nadella, della Microsoft; Arvind Krish­na, della Ibm; Shantanu Narayen, dell’Adobe; George Kurian, dell’azienda di immagazzinamento dati NetApp. Le loro storie di successo hanno affascinato gli indiani e per spiegarle sono state avanzate varie ipotesi. A cominciare dal tempismo.

“Alla fine degli anni ottanta l’emigrazione negli Stati Uniti di giovani ingegneri indiani che volevano specializzarsi in informatica ed elettronica ha coinciso con una diminuzione degli universitari statunitensi che volevano studiare quelle discipline”, spiega Ajit Kumar, direttore informatico alla Hcl technologies. “Ecco perché i professionisti del settore negli Stati Uniti sono in larga maggioranza indiani”.

Anche se ogni caso è a sé, si possono individuare alcuni fattori comuni nei percorsi che hanno portato gli indiani alla guida dei giganti della tecnologia.

L’applicazione degli studenti indiani nella matematica e nelle scienze fin da piccoli ha un peso. Tanti genitori in India insegnano ai figli a prendere molto sul serio queste materie perché sono la via più sicura per il successo. In un paese di 1,3 miliardi di persone, la concorrenza è spietata e pochi studenti ottengono voti abbastanza alti da poter accedere agli Iit. Quest’anno circa 2,2 milioni di studenti si sono registrati ai test d’ingresso aspirando a uno dei 16mila posti disponibili. “Contano molto il rigore di questi istituti, molto superiore a quello del Massachusetts institute of technology, e l’autoselezione”, dice Ashok Alexander, socio della McKinsey in pensione.

Agrawal è stato uno degli studenti più brillanti del Maharashtra, il suo stato di origine, ed è riuscito a entrare all’Iit di Mumbai. “Ogni studente che riesce a entrare in uno di quegli istituti è un eroe nella sua città”, ha raccontato Ram Kakkad al Times of India. “Ma Parag ha ottenuto il massimo dei voti il primo anno, era la persona più intelligente in circolazione”.

Il meglio del meglio

Ogni anno i reclutatori aziendali arrivano nei 23 Iit indiani a caccia del meglio del meglio. Quest’anno molti laureati si sono visti offrire posti di lavoro con stipendi iniziali da più di 20 milioni di rupie (235mila euro) all’anno. Le università sono anche un terreno di caccia ideale per le multinazionali statunitensi e sono il vivaio perfetto per le grandi aziende della Silicon valley.

Ajay Lavakare, che alla fine degli anni ottanta lasciò l’Iit di New Delhi per trasferirsi nella Silicon valley, dice che le competenze analitiche e tecniche che danno le università insieme a un’istruzione generale di qualità spiegano la presenza di tanti indiani ai vertici delle aziende incluse nella lista Fortune 500.

“Crescendo in India impari a muoverti in un ambiente incerto e ambiguo e a fare di più con meno”, spiega Lavakare, che ha lavorato in un’azienda della baia di San Francisco specializzata nella gestione dei rischi legati alle catastrofi per trovare, a partire dai dati, soluzioni per il settore assicurativo. Ora è tornato in India, dove fa da tutor ai fondatori delle start-up in cui investe.

In un paese in cui il 25 per cento degli abitanti è ufficialmente considerato povero e la carenza di acqua e di elettricità sono la norma per moltissime persone, tutti sono abituati ad adattarsi a situazioni incerte. E un ambiente simile, improntato alla scarsità, può favorire l’innovazione. In India c’è una parola per indicare la capacità di risolvere i problemi con l’ingegno e con risorse molto limitate: jugaad, che nel gergo contemporaneo è l’equivalente di hackerare.

Un’ultima barriera

Il concetto di jugaad è stato analizzato da molti esperti di affari, tra cui Navi Radjou, Jaideep Prabhu e Simone Ahuja, che nel loro libro Jugaad innovation riflettono sul modo in cui la flessibilità e la propensione a fare di più con meno abbiano aiutato le aziende a “generare una crescita importante in un mondo complesso e con poche risorse”.

In un articolo del 2016 pubblicato sulla Stanford social innovation review, il ricercatore Jamal Boukouray sosteneva l’adozione del jugaad per guidare l’innovazione sociale. “Quello di cui le aziende hanno bisogno oggi è una nuova generazione di amministratori delegati che mangino, respirino, parlino e soprattutto agiscano in modo frugale nei loro ecosistemi, e che al tempo stesso sappiano pensare a come espandere il potenziale delle loro aziende nel contesto mondiale”, ha scritto Boukouray, docente alla Esca école de management, in Marocco.

Lavakare racconta che quando lavorava nella Silicon valley, trent’anni fa, non aveva un tutor che lo guidasse né una rete su cui fare affidamento, pur traendo ispirazione da vari modelli come Vinod Khosla, fondatore della Sun Microsystems, e Sabeer Bhatia, fondatore di Hotmail. Poi negli anni è emerso un forte sistema di supporto, prosegue Lavakare: la prima generazione di indiani ad aver avuto successo nel settore voleva aiutare chi sarebbe venuto dopo a evitare le trappole. Il risultato è un ambiente d’imprenditori che fanno da tutor e finanziano start-up.

In tutto ciò, c’è ancora una barriera. Nella stragrande maggioranza dei casi i dirigenti di origine indiana negli Stati Uniti continuano a essere uomini. Anjali Sud, amministratrice delegata di Vimeo; Revati Advaithi, a capo della Flextronics, e Jayshree Ullal, amministratrice delegata di Arista Networks, , sono tra le poche eccezioni. Ma è probabile che da qualche parte, tra gli Iit indiani, ci siano già oggi delle giovani brillanti che proveranno a cambiare le cose. ◆ gim

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Questo articolo è uscito sul numero 1439 di Internazionale, a pagina 36. Compra questo numero | Abbonati