Quante svolte può sopportare una regione in dieci anni? Nell’ultimo decennio il Medio Oriente ha vissuto le primavere arabe, l’ascesa e la caduta del gruppo Stato islamico, l’intervento russo in Siria, l’adesione e poi il ritiro degli Stati Uniti dall’accordo sul nucleare iraniano. Se torniamo ancora più indietro nel tempo, possiamo aggiungere l’intervento degli Stati Uniti in Iraq: la regione naviga in acque turbolente dall’inizio degli anni duemila, e la situazione è peggiorata, soprattutto dal 2011. Il Medio Oriente affronta dei cambiamenti radicali ormai da tempo. Quindi bisogna essere molto prudenti prima di annunciare l’ennesima svolta.

L’accordo sulla normalizzazione dei rapporti diplomatici tra Israele e gli Emirati Arabi Uniti, annunciato il 13 agosto, rientra davvero in questa categoria, come sostiene la maggior parte dei commentatori? La risposta è meno scontata di quello che sembra. La tempistica dell’annuncio ha sorpreso tutti, e il suo valore simbolico è molto forte. Ma è altrettanto vero che l’ufficializzazione dell’idillio tra Israele e gli Emirati non cambierà necessariamente la situazione della regione. Non è un evento paragonabile alla visita del presidente egiziano Anwar Sadat a Gerusalemme nel novembre del 1977, che aprì la strada all’accordo di pace tra i due paesi. Gli Emirati, infatti, non sono in guerra con Israele e non sono nemmeno particolarmente attivi (per usare un eufemismo) nella difesa degli interessi palestinesi.

Gli Emirati Arabi Uniti hanno capito che il mondo arabo è cambiato e hanno stabilito che l’Iran, la Turchia e le democrazie arabe sono una minaccia più grave rispetto allo stato ebraico

Abu Dhabi non ha “abbandonato la causa palestinese”, semplicemente perché da anni non la considera una priorità. Gli Emirati temono che l’annessione di alcune aree della Cisgiordania possa fermare il loro riavvicinamento con lo stato ebraico e hanno deciso di usare la loro principale carta nei rapporti con Israele – la normalizzazione diplomatica – in cambio di una sospensione (o di un semplice rinvio, stando alle parole del premier israeliano Netanyahu) dell’annessione. Gli Emirati hanno stabilito che il gioco vale la candela. Ma è lecito dubitarne. Niente, infatti, lascia pensare che Netanyahu sia disposto a mettere da parte l’annessione, anche perché si tratta di una questione molto complessa per motivi sia interni sia internazionali. Di conseguenza non è detto che tra qualche mese il governo israeliano non riprenderà il progetto. Abu Dhabi osserverà la situazione da vicino e si prenderà il suo tempo, ma si può comunque dire che gli Emirati hanno “svenduto” la normalizzazione.

Benjamin Netanyahu è il grande vincitore di questa operazione. Il riavvicinamento con le monarchie del Golfo è uno dei suoi principali obiettivi diplomatici, anche perché il governo israeliano ha un doppio interesse: rafforzare il fronte contro l’Iran e isolare ulteriormente i palestinesi. Inoltre a questo punto il primo ministro israeliano ha un’ottima scusa per rimandare l’annessione, una cosa che considera impossibile da portare avanti ma che è obbligato a difendere per non perdere l’appoggio dell’estrema destra. Per Netanyahu la vittoria sarà ancora più completa se l’uscita allo scoperto di Abu Dhabi provocherà un effetto domino nel Golfo. Il Bahrein per esempio potrebbe presto seguire l’esempio degli Emirati.

La normalizzazione dei rapporti con le monarchie del Golfo assumerebbe tutta un’altra dimensione se coinvolgesse anche l’Arabia Saudita. Ma uno scenario di questo tipo sembra impossibile, almeno per il momento. Il re Salman è legato alla causa palestinese come buona parte dell’opinione pubblica saudita e il regno deve tenere conto degli aspetti religiosi in quanto custode dei luoghi sacri (la moschea Al Aqsa a Gerusalemme è considerata il terzo luogo sacro dell’islam).

Più che una svolta, questa dinamica politica che vede le monarchie del Golfo avvicinarsi a Israele alla luce del sole è il segno che il mondo arabo è già cambiato. Gli Emirati hanno preso atto di questo cambiamento e hanno stabilito che l’Iran, la Turchia e le democrazie arabe sono una minaccia più grave rispetto allo stato ebraico.

Oggi il mondo arabo segue il ritmo imposto dagli interventi delle potenze non arabe animate da ambizioni imperialiste: l’Iran, la Turchia e in misura minore la Russia. Il gigante egiziano, nonostante i suoi cento milioni di abitanti, è diventato un comprimario. La Siria è in macerie. L’Iraq è in guerra a singhiozzo da più di quindici anni. Le monarchie del Golfo sono governate da una nuova generazione di leader condannati a reinventare i rispettivi paesi per prepararli all’epoca post-petrolifera e salvarli dalla scomparsa.

La Palestina non è più una questione prioritaria per le capitali del mondo arabo. La normalizzazione dei rapporti diplomatici con Israele è ancora un tabù per la maggior parte di questi stati, ma è un fatto che non cambia la situazione di fondo: i palestinesi sono più soli che mai. ◆ as

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Questo articolo è uscito sul numero 1372 di Internazionale, a pagina 34. Compra questo numero | Abbonati