Come ogni 7 dicembre Milano festeggia il suo patrono, sant’Ambrogio. In mattinata si celebra una messa nella basilica che porta il nome di questo vescovo del quarto secolo, famoso per i suoi inni appassionati. Poi il sindaco consegna l’Ambrogino d’oro, una medaglia che premia le persone che si sono distinte nel capoluogo lombardo. Il rituale prevede che le celebrazioni avvengano nel Teatro alla Scala, che quella stessa sera inaugura la sua stagione lirica.
Prima dello spettacolo le personalità presenti passeggiano sotto i lampadari del mitico teatro. Il 7 dicembre 2024 c’è anche l’attore Pierfrancesco Favino, che ha recitato in Maria, il film di Pablo Larraín su Maria Callas, il soprano a cui la Scala deve una parte della sua fama. “Il 7 dicembre ho avuto l’impressione di partecipare a un rito”, dirà in seguito l’attore. “In ogni città italiana ci sono almeno una chiesa e un teatro. E la Scala è quello dove la nostra storia risuona più forte”.
Il presidente del senato Ignazio La Russa, di estrema destra, prende posto sotto gli stucchi dorati del palco reale per assistere alla rappresentazione. Qui trova la senatrice a vita Liliana Segre, 94 anni, sopravvissuta dei campi di prigionia nazisti. Segre non si sposta più senza la guardia del corpo, dopo essere stata bersaglio di attacchi antisemiti. A questa improbabile coppia di personalità spetta il compito di rappresentare lo stato italiano, in assenza della presidente del consiglio Giorgia Meloni e del presidente della repubblica Sergio Mattarella, che è a Parigi per l’inaugurazione della cattedrale di Notre-Dame. Le telecamere della Rai seguono l’evento senza perderne un istante: la rappresentazione è trasmessa in diretta su Rai 1. Per l’occasione sono stati montati, insieme agli alberi di Natale, 37 maxischermi nelle prigioni, nelle scuole e negli ospedali milanesi.
Alla fine della serata, in un contesto molto più formale, si è poi tenuta presso la Società del Giardino, lo storico circolo delle élite milanesi, la cena di gala. Il sovraintendente e direttore artistico della Scala, il francese Dominique Meyer, è ricorso a qualche trucco per evitare di avere La Russa al suo tavolo: un modo per mettere in evidenza la sua opposizione alla retorica nazionalista del partito del presidente del senato, Fratelli d’Italia, che secondo Meyer avrebbe fatto pressione per non rinnovare il suo mandato. Dal 18 febbraio infatti è un italiano, Fortunato Ortombina, che è stato responsabile del teatro dell’opera la Fenice di Venezia, a prendere il posto di Meyer.
Sistemare le persone
Nel 2024, come succede spesso, per inaugurare la stagione della Scala è stata scelta un’opera di Giuseppe Verdi, in questo caso La forza del destino. Nel corso della sua vita il compositore ha avuto relazioni complicate con la Scala, dove ha alternato fallimenti e grandi successi: “croce e delizia”, per citare un verso della Traviata. Ma non è stato l’unico. Dalla sua creazione, nel 1778, il teatro milanese continua a scatenare passioni, in un crescendo d’intrighi e di clamori. Luogo di splendori e di scandali, la Scala è un’anomalia nel mondo sempre più ovattato ed elitario dell’opera: il posto dove lo spettacolo è presente sia dentro sia fuori, dove vibra una passione che non ha nulla da invidiare alle più rumorose arene sportive, politiche o religiose.
Di fatto molti la paragonano a un tempio, con i suoi custodi e i suoi mercanti, con le sue divinità e il suo clero, con i suoi fedeli e i suoi miscredenti, e con la sua liturgia. E come ogni culto organizzato il teatro si scontra con le volontà del potere secolare: nel momento in cui il governo di Giorgia Meloni riprende il controllo della cultura, la Scala è più che mai un obiettivo politico. La famiglia politica della presidente del consiglio ha infatti deciso di costruire una nuova “storia nazionale” più conservatrice e legata all’identità, estromettendo in particolare i dirigenti stranieri dalle grandi istituzioni culturali.
“Questo governo considera i teatri di musica lirica, uno degli elementi principali della civiltà italiana, come un luogo dove sistemare delle persone”, si scandalizza il giornalista e librettista Alberto Mattioli nel suo bell’appartamento milanese, dove si può ammirare un quadro in cui il giornalista è raffigurato nel palco di un teatro lirico. Mattioli, che afferma di aver assistito a 2.138 rappresentazioni liriche, ha dedicato un saggio alle ambizioni culturali della destra meloniana (Destra maldestra. La spolitica culturale del governo Meloni, Chiarelettere 2024). In questo libro l’autore ritorna sullo scandalo che ha accompagnato il tentativo di licenziare Stéphane Lissner, dal 2020 sovraintendente del teatro San Carlo di Napoli.
Creata quando l’Italia del nord era sotto il dominio austriaco, la Scala ha avuto un ruolo centrale nell’unificazione del paese
Nel 2023 Meloni, intenzionata a mettere un suo alleato a capo della Rai, ha dovuto concedere all’amministratore delegato del gruppo Carlo Fuortes di assumere la guida del San Carlo di Napoli. Ma per realizzare questa operazione bisognava cacciare Lissner, che per il governo aveva il difetto di essere francese. La manovra ha preso la forma di un decreto che fissava a settant’anni il pensionamento dei dirigenti dei teatri lirici. Un testo contestato dal diretto interessato, che oggi ha 72 anni. La corte costituzionale gli ha dato ragione nel luglio 2024 e alla fine è rimasto alla guida del teatro napoletano.
Ma il suo connazionale Dominique Meyer non è stato risparmiato da questa volontà di italianizzare gli ambienti culturali. Nel suo ufficio tappezzato da centinaia di dischi Meyer racconta “un incidente delizioso”: “Nel 2023, durante un discorso in margine al festival del Maggio musicale fiorentino, il sottosegretario alla cultura Vittorio Sgarbi aveva affermato che il museo degli Uffizi di Firenze e la Scala avrebbero dovuto essere diretti da italiani e che in Francia non sarebbe mai venuto in mente a qualcuno di nominare uno straniero a capo del teatro dell’Opera di Parigi”. Nel febbraio 2024 Sgarbi si è poi dimesso dal governo.
Meyer continua: “Ho visto trecento paia di occhi fissarsi su di me. Alla fine sono andato da Sgarbi e gli ho ricordato che l’Opera di Parigi era stata diretta nel corso dei suoi primi anni da un fiorentino, Lully. E che dal 2020 il suo direttore, Alexander Neef, è tedesco. Insomma, questa gente racconta un sacco di cose senza sapere di cosa parla”. Da buon cartesiano, Meyer vuole “smitizzare” l’immagine del teatro che dirige. Di fatto quello che importa al francese sono i numeri: un po’ più di novecento dipendenti distribuiti tra coro, orchestra, corpo di ballo, tecnici e amministrazione; 231 rappresentazioni all’anno che attirano quattrocentomila spettatori, di cui il 30 per cento ha meno di 35 anni; un bilancio di 129 milioni di euro, di cui un terzo costituito da sovvenzioni pubbliche, un terzo da contributi privati e un terzo dai biglietti venduti, il tutto controllato da una fondazione privata. “Lascio una struttura in cui regna un clima sereno”, si rallegra Meyer.
Una serenità peraltro piuttosto relativa, a giudicare dal grande chiasso che agita le vie vicine al teatro ogni 7 dicembre. Infatti dagli anni sessanta queste strade sono il luogo in cui sfilano i manifestanti che sperano di ottenere visibilità per le loro cause grazie all’interesse che attira la prima della Scala. Così nel corso degli anni generazioni di militanti hanno gettato uova, pomodori e oggetti vari sulle pellicce delle sciure, le ricche e attempate signore con la loro eleganza tipicamente milanese. Un modo per colpire l’uso di pelli animali e l’ostentazione della ricchezza. Il prezzo dei biglietti della prima è sempre stato alto: il 7 dicembre 2024 per avere un posto in platea bisognava spendere 3.200 euro.
Elencare tutte le manifestazioni di protesta che si sono svolte negli anni nel giorno di sant’Ambrogio significa fare una storia delle lotte italiane: dai piccoli gruppi di estrema sinistra ai sindacati che rifiutano la chiusura delle fabbriche di automobili fino agli agricoltori che sfilano con i loro animali. Per quanto riguarda gli abiti, l’eskimo dei sessantottini è stato sostituito dalle kefiah filopalestinesi, ormai onnipresenti tra i manifestanti. Gaza, ma anche l’Ucraina o la difesa dell’ambiente, sono state le cause sostenute il 7 dicembre 2024 nelle strade milanesi.
Nonostante il pesante apparato di sicurezza, alcuni militanti animalisti sono riusciti a versare del letame davanti alla Scala. Tra i manifestanti c’era anche Lucia Tozzi, autrice napoletana specialista di questioni urbanistiche, che vive a Milano e che denuncia la gentrificazione della città. “C’è sempre stato un conflitto tra l’interno e l’esterno del teatro”, osserva la ricercatrice con le sue ciocche di capelli viola. “Una grande azienda mi aveva invitato alla prima ma ho rinunciato, non volevo favorire la riabilitazione della loro reputazione. Ho preferito manifestare contro il lusso eccessivo e per l’uguaglianza dei diritti”.
Ma alla Scala la divisione tra il dentro e il fuori non è mai stata troppo rigida. Marco Vizzardelli, giornalista specializzato in equitazione, ne è l’esempio perfetto. Personaggio estremo come le opere di cui è appassionato, questo milanese ha disturbato il 7 dicembre 2023 la cerimonia di sant’Ambrogio: “Viva l’Italia antifascista!”, ha gridato con la sua voce da tenore prima dell’inizio del Don Carlo di Verdi. “Non sopportavo di vedere Ignazio La Russa, che a casa conserva un busto di Mussolini, seduto accanto a Liliana Segre”, ci ha spiegato sulla terrazza di un caffè nella galleria Vittorio Emanuele II. Piazza San Sepolcro, dove i fasci di combattimento di Mussolini si riunirono per la prima volta nel 1919, è solo a due passi.
Nel 2023 Vizzardelli è stato fermato e identificato dalla Digos. “Gli ho detto che il reato sarebbe stato dire ‘Viva l’Italia fascista!’ e che in questo caso mi avrebbero dovuto arrestare”. Nel 2024 il sessantenne non ha ripetuto la provocazione, nonostante il ritorno di La Russa alla Scala. “Quello che funziona una volta diventa una pagliacciata la seconda”, si è giustificato Vizzardelli.
Il punto Callas
Secondo il regista Davide Livermore, che nel 2018 era stato criticato dall’estrema destra per aver messo in scena la caduta di una statua della Madonna nel suo Attila di Verdi, “Marco è un grande italiano che ha usato la Scala come un luogo politico. Questo caso mostra che chi ama la democrazia non deve mai abbassare la guardia”.
Creata quando l’Italia del nord era sotto il dominio austriaco, la Scala ha avuto un ruolo centrale nell’unificazione del paese. Una lotta nel corso della quale, secondo il giornalista del Corriere della Sera Pierluigi Panza, la Scala è stata una “protagonista non militare”. Del resto – consapevole di questo peso simbolico – è qui che Napoleone Bonaparte, entrato in città con le sue truppe nel 1796, fece cantare la Marsigliese.
Alla fine dell’ottocento Giuseppe Verdi fu il grande interprete delle aspirazioni nazionali italiane. Le sue opere, popolarissime, contribuirono a definire la lingua del paese, all’epoca divisa in una miriade di dialetti. A tal punto che i patrioti scrivevano sui muri della città “Viva Verdi”, con le lettere del nome del compositore che formavano l’acronimo dello slogan “Vittorio Emanuele re d’Italia”, in riferimento al sovrano che nel 1861 sarebbe diventato il primo re d’Italia, Vittorio Emanuele II.
La Scala non era un teatro di corte, ma quello del popolo milanese: “il salotto della città”, scriveva Stendhal nel 1817. Al tempo stesso era il teatro lirico di un’intera nazione, sostenuta dalla crescente potenza industriale del capoluogo lombardo.
Francine Garino conosce questo teatro come le sue tasche. Fa la guida ed è incaricata da quasi trent’anni delle visite in lingua francese. “Prima che il comune ne diventasse proprietario, nel 1921, ogni palco apparteneva a una famiglia, che poteva sistemarlo come meglio credeva. I domestici andavano in platea. Qui si mangiava, si beveva e talvolta si facevano anche altre cose”, osserva sorridendo.
La nostra guida elenca i pittoreschi personaggi che hanno fatto la storia di questo luogo. Domenico Barbaja (1778-1841) per esempio era un garzone di caffè che aveva fatto fortuna grazie all’invenzione della barbajada, una variante del cappuccino. “Questo gli aveva permesso di aprire un casinò all’entrata della Scala, e poi di diventare un grande impresario”. Instancabile, la nostra guida ci racconta anche gli intrighi orditi in questi corridoi: “Si racconta che nel 1857, quando l’imperatrice d’Austria Sissi invitò i nobili milanesi alla Scala, questi ultimi mandarono i loro domestici con degli abiti eleganti, per protesta contro il dominio austriaco”.
La maggior parte dei visitatori le fa molte domande sull’artista il cui nome è quasi un anagramma del teatro. “Spesso mi si chiede di indicare il ‘punto Callas’, cioè quel posto sul palcoscenico dove Maria Callas amava cantare. Si dice che da qui i suoni si diffondano meglio in direzione del pubblico”. Tra il 1950 e il 1962 il soprano greco ha partecipato a 25 rappresentazioni alla Scala. E i fischi si sono mescolati agli applausi, al punto che il teatro si era diviso tra suoi fan e quelli della sua rivale, Renata Tebaldi. “Si dice che alcuni tra i più ostili le gettarono addirittura un mazzo di ravanelli!”, ricorda scandalizzato il presidente della Fondazione Maria Callas, Tom Volf. “La severità del pubblico milanese la spinse a dare il meglio di sé, ma a che prezzo? Callas ne pagò le conseguenze, fino al punto di perdere la voce”.
Di questo destino straordinario il cileno Pablo Larraín ne ha fatto un film, Maria, con Angelina Jolie nel ruolo principale. Il regista è riuscito a ottenere l’autorizzazione a filmare quattro ore all’interno del teatro. “Ho dovuto passare una sorta di esame, durante il quale hanno verificato le mie conoscenze in materia di musica lirica”, racconta il regista. Dopo Jackie Kennedy (Jackie) e lady Diana (Spencer), ora è un’altra donna di potere – insieme ai suoi problemi – a essere al centro di un film. “È su questo palcoscenico che Maria Callas conquistò il mondo e diventò un personaggio tragico come quelli che interpretava”.
Più di mezzo secolo dopo il passaggio della diva, la Scala ha conservato la reputazione di essere, tra tutti i teatri lirici, il più difficile. “Che dio vi maledica!”, esclamò una volta nel 1989 il soprano Katia Ricciarelli rivolta al pubblico, esasperata dai fischi. “È un luogo terribile e questo mi piace”, afferma il regista Livermore. “Viviamo nell’era dei like, della facilità. La Scala ci riporta alla natura pericolosa e civile dell’arte. Non esiste democrazia senza il confronto”.
Il tenore Roberto Alagna lo dice con altre parole: “Alla Scala ti senti il fucile puntato addosso. Le mie più grandi gioie e i miei più grandi dispiaceri li ho vissuti qui”. Qui ha cantato accanto alle “voci del secolo”, da Luciano Pavarotti a Plácido Domingo, e a sua moglie Florence Lancien, poco prima che morisse per un tumore nel 1994. Il nome di Alagna resta associato anche a una delle più grandi controversie del teatro: nel 2006 durante la seconda rappresentazione dell’Aida il tenore, esasperato dai fischi, abbandonò il teatro. Ci sarebbe tornato solo sedici anni dopo, tra gli applausi. “Questa storia è complicata come l’attentato a Kennedy. Mi hanno fischiato per motivi politici. Sono stato tradito, imbrogliato”. Durante la prima Alagna aveva infatti sostituito in un’aria la parola “prodi” con “bravi”: “Volevo evitare che gli oppositori del presidente del consiglio dell’epoca approfittassero dell’omonimia per fischiarlo”. Ma il tenore dice di aver pagato questa libertà in occasione della rappresentazione successiva. “Quando sono arrivato alla Scala tre persone mi hanno fatto il gesto di volermi sgozzare. Era tutto orchestrato”. Alagna afferma di essere l’unico cantante a non aver mai dato un centesimo a un certo Tonino, che dirigeva la claque. “Questa abitudine è nata in Italia, ai tempi in cui Nerone pagava per farsi applaudire nelle arene. Per fortuna oggi è finita”.
Gli ultrà del teatro
Alla Scala la parte del pubblico più appassionata prende posto nel loggione, da cui il soprannome di loggionisti, spesso paragonati agli ultrà degli stadi di calcio. Prima di ogni rappresentazione 150 biglietti del loggione sono messi in vendita a una decina di euro. Per ottenerli bisogna iscriversi a una lista d’attesa e fare la coda, talvolta per giorni, presentandosi agli orari indicati. Un certo Gianni controlla il buon andamento della coda. Con il suo inseparabile cane bianco, l’uomo, che si dice monarchico, racconta a chi li vuole sentire degli aneddoti in dialetto milanese, aggiungendo un tocco di folclore a un teatro già leggendario.
Giuseppe Minoia ha cominciato ad apprezzare Verdi all’età di cinque anni, nella fattoria dei genitori. Oggi è vicepresidente degli Amici del loggione, la principale associazione dei loggionisti: “Siamo degli appassionati. E questa passione la comunichiamo a volte in modo rumoroso”. Gli ottocento soci, tra cui un centinaio sotto i 35 anni, formano un autentico gruppo di pressione che nel corso d’incontri regolari trasmette le sue rimostranze e i suoi apprezzamenti ai dirigenti del teatro. “Siamo il proletariato della Scala”, dice con una punta d’ironia Minoia, che a ottant’anni esercita ancora la sua professione di sociologo.
L’energia del posto
Il “capitale” invece lo si ritrova presso gli Amici della Scala, l’associazione rivale, che riunisce alcuni fra i più generosi sponsor dell’istituzione, per lo più provenienti dalla vecchia aristocrazia milanese. I loro posti in teatro sono centrali, molto più cari, e si tramandano di generazione in generazione. Ma le battaglie possono spesso trascendere le classi sociali, ed è soprattutto sulle questioni estetiche che assumono un tono più esasperato. Come il conflitto che ha a lungo contrapposto i sostenitori di due famosi direttori d’orchestra, Claudio Abbado e Riccardo Muti.
“I clan si scontrano rumorosamente durante lo spettacolo e rapidamente il confronto può assumere toni infuocati”, commenta Stéphane Lissner, primo straniero ad aver diretto il teatro dal 2005 al 2012. In un momento di rabbia il francese aveva paragonato i più tradizionalisti ai taliban. E aveva dovuto fare ricorso a tutte le sue arti diplomatiche per riconquistare la fiducia degli habitué. “La prima volta che sono entrato qui in qualità di sovraintendente ho avvertito qualcosa di complicato da spiegare”, continua Lissner. “È un teatro che emana delle onde”.
Parzialmente distrutto dai bombardamenti alleati, il Teatro alla Scala fu il primo edificio di Milano a essere ricostruito nel 1946. Lo spettacolo di riapertura del teatro fu diretto da Arturo Toscanini, un antifascista esiliato negli Stati Uniti, insieme al direttore del coro, Vittore Veneziani, cacciato dalla Scala nel 1938 perché ebreo. Simbolo della rinascita di un’Italia ormai pacificata, la cerimonia ebbe una certa religiosità. Del resto il teatro deriva il suo nome dalla chiesa Santa Maria della Scala, sulle rovine della quale fu costruito. Una leggenda raccontata da Donatella Brunazzi, direttrice del museo della Scala, fa risalire questa tendenza alla devozione a tempi ancora più lontani: “La Scala si troverebbe sul luogo di un antico tempio celtico situato su un importante polo magnetico. E da ciò deriverebbe la particolare energia del posto”.
Il teatro deriva la sua aura anche dai fedeli che da decenni frequentano questi luoghi. “È la mia seconda casa”, confessa Rodolfo Rocchi, 84 anni. Scalpitando d’impazienza prima della prova generale del Falstaff di Verdi, ci mostra la sua reliquia più preziosa: un biglietto firmato da Maria Callas, che lo ringrazia per la poesia che le aveva scritto da adolescente. “Negli anni ottanta il mio lavoro in banca mi aveva fatto perdere tre spettacoli del 7 dicembre. Alla terza volta mi sono dimesso, e da allora non ne ho mai persa una”.
Per alcuni influencer il momento più importante è il primo intervallo, per andare a bere una coppa di champagne nel foyer
Nell’intervallo Rocchi racconta di altri “santi” scomparsi di recente. La “signora Pia”, che offriva a ogni dipendente della Scala dei regali personalizzati: saponette, calzini per neonati… O il “tenore Valpolicella”, un senzatetto appassionato di vino e di musica lirica, che come elemosina riceveva dei biglietti per gli spettacoli: alla sua morte gli è stata dedicata una panchina. E chissà quante coppie si sono formate in questa chiesa. “Spartacus, una guida di viaggi gay, ha inserito la Scala fra i luoghi d’incontro più importanti”, dice divertito Alberto Mattioli.
Ma tra i fedeli più intransigenti la pietà si vena di dolore, e davanti ai cambiamenti della Scala si grida al sacrilegio: progressivo decadimento del dress code (ormai sono vietati solo le infradito e i pantaloni corti), concerto della Scala all’aeroporto di Milano Malpensa nel 2015, sfilata di Dolce & Gabbana sul sacro palcoscenico del teatro nel 2016, spettacolo del cantante Paolo Conte nel 2023 (il primo interprete di musica cosiddetta “leggera” nel rifugio della Callas). Per gli habitué sono tutti strappi alla missione principale del teatro, sacrificato sull’altare del profitto.
Cambia il pubblico
Tutti ricordano bene il progetto del direttore artistico Riccardo Muti, che voleva avvicinare la Scala ai metodi usati nel settore privato. Abbandonato dalla propria orchestra, che si espresse contro di lui in occasione di un voto per alzata di mano nel 2005, il maestro gettò la spugna. “Mi dispiace di aver votato contro Muti, perché so che non suonerò più sotto la sua direzione”, confida la prima arpista della Scala, Olga Mazzia. “Ormai tutto si sta progressivamente normalizzando e alcuni spettatori trascurano il decoro, ma quando si va in chiesa si fa attenzione al proprio abbigliamento. Qui dovrebbe essere la stessa cosa”.
Per Carlo Fontana, che ha intrapreso importanti lavori di rinnovamento quando ha diretto l’istituzione tra il 1990 e il 2005, un cambiamento netto è avvenuto quando è stato sostituito da Stéphane Lissner: “Con l’arrivo dei sovraintendenti stranieri la Scala si è allontanata dai milanesi”, osserva Fontana, politicamente di centrosinistra e che si dice contrario a qualunque atteggiamento xenofobo. Ma Dominique Meyer, anche se ha constatato un leggera diminuzione degli abbonamenti locali in occasione del suo arrivo al teatro, assicura che il problema si sta risolvendo: “Producendo un po’ meno spettacoli, i milanesi sono più interessati”.
In ogni caso nei corridoi del teatro si sente parlare meno italiano (il 31 per cento degli spettatori è straniero). Il motivo è il crescente afflusso di turisti: il 31 dicembre 2024 prima della rappresentazione dello Schiaccianoci alcune donne azere nei loro vestiti di satin scattavano decine di selfie sotto gli sguardi di disapprovazione dei rari loggionisti. La giornalista del Corriere della Sera Michela Proietti, fine osservatrice degli stili di vita milanesi, conferma questa trasformazione: “Alcuni influencer vanno alla Scala senza aver letto il libretto. Per loro il momento più importante è il primo intervallo, per andare a bere una coppa di champagne nel foyer”.
Nel frattempo i ricchi finanziatori stranieri, per lo più statunitensi, stanno progressivamente sostituendo le più antiche dinastie lombarde. Stiamo assistendo a una museificazione della Scala? “Milano non è più una città industriale, ma un polo turistico e finanziario. E il nostro teatro non può ignorare questi cambiamenti, indipendentemente dal fatto che cerchi di anticiparli o di resistergli”, analizza il direttore culturale del teatro Carlo Torresani. In un certo senso la Scala si trova a dover fare i conti con le stesse contraddizioni che caratterizzano il resto d’Italia, la cui crescita dipende sempre di più dal turismo, mentre i politici continuano a vantare le “eccellenze italiane”.
Il sonno di Verdi
In un paese che invecchia queste tensioni preoccupano quelli che, spesso giovani e istruiti, considerano la Scala un’istituzione capace di conciliare patrimonio e creazione, rispetto della tradizione della musica lirica e apertura sul mondo. “L’opera è indubbiamente nata in Italia, ma fino a prova contraria è una donna di origine greca, la Callas, che ne ha offerto l’espressione più straordinaria!”, afferma il cinquantenne Francesco Lattuada, che suona la viola nell’orchestra della Scala.
La scenografa Eleonora Peronetti, trent’anni, lavora sia per l’opera sia per i grandi nomi della musica leggera italiana. Questa milanese parla della Scala, dove ha incontrato il suo compagno, come di una “fabbrica delle meraviglie”, la cui attrazione continua a essere molto forte: “Insegno all’accademia di belle arti e tutti i miei studenti sognano di fare delle scenografie per gli spettacoli lirici piuttosto che per la musica pop”.
L’étoile della Scala Roberto Bolle è diventato una sorta di ambasciatore presso i giovani, attraverso delle trasmissioni televisive in cui cerca di ringiovanire l’immagine della danza classica. Il ballerino ci ha dato appuntamento nella “sala gialla” della Scala, un colore tipicamente milanese, che caratterizza tanto la gastronomia quanto l’architettura locale e di cui gli stucchi dorati del teatro portano ancora le tracce. Questo ballerino, che nel corso della sua formazione alla Scala ha conosciuto il grande Rudolf Nureev, si sarebbe visto al posto del francese Manuel Legris (invece è stato nominato Frédéric Olivieri): “Dirigere la Scala non è mai semplice, anche se la danza è meno esposta alle pressioni politiche”.
Assiduo spettatore della Scala, Paolo Maggioni, 42 anni, segue l’attività del teatro come giornalista della Rai: “Il padre di Carla Fracci era un tranviere come mio nonno. E quando passava davanti alla Scala scampanellava tre volte per salutarla. Quando è morta la città le ha dedicato un tram, che ancora oggi passa davanti al teatro”.
Davanti a un risotto alla milanese, Maggioni evoca la paglia che i milanesi avrebbero messo sulle strade alla morte di Verdi nel 1901: “Il rumore delle carrozze non doveva disturbare il suo ultimo sonno”. Il giornalista dice di aver incontrato solo una volta Giorgia Meloni alla Scala, al contrario di Liliana Segre che è una spettatrice abituale del teatro. “Con la sua dignità questa donna offre il volto più bello della nostra città”. In occasione di un servizio giornalistico, Maggioni ha simpatizzato con le sue guardie del corpo: “Tra di loro parlavano di libretti di Verdi”. La senatrice doveva averli convertiti alla sua passione. ◆ adr
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Questo articolo è uscito sul numero 1604 di Internazionale, a pagina 34. Compra questo numero | Abbonati