Quasi venti morti in una settimana nei Territori palestinesi occupati: la stima non rischia di commuovere il mondo. Del resto, a che serve riparlare di un conflitto israelo-palestinese eterno e irrisolvibile? Le fiammate di violenza episodica non interessano più a molte persone. Eppure, la morale e la giustizia, se queste parole hanno ancora senso, impongono di tornarci su.

La sequenza stavolta è cominciata il 19 giugno con un’operazione dell’esercito israeliano a Jenin, nel nord della Cisgiordania: sette palestinesi uccisi. Il 20 giugno alcuni palestinesi hanno ucciso quattro coloni israeliani. Nella serata e il giorno dopo alcune bande di centinaia di coloni inferociti hanno fatto irruzione in una quindicina di località palestinesi, seminando il terrore. Bilancio provvisorio: un morto, una cinquantina di feriti, 160 auto e decine di case bruciate.

L’esercito israeliano non ha impedito le aggressioni. Nessun arresto è stato ordinato. Questo esercito dispone di potenti scudi antimissile ma è incapace di controllare dei facinorosi che vogliono fare i giustizieri e la cui presenza sul territorio non ha altra origine se non lo slogan: “Dio ci ha dato questa terra”.

La popolazione palestinese vive quotidianamente in un clima di terrore. Come ricorda l’ong israeliana B’Tselem “dei pogrom, su scala più piccola, si verificano continuamente”. Pogrom! Una parola che un tempo indicava le aggressioni feroci di cui erano vittima le popolazioni ebraiche nell’est dell’Europa. Un paradosso.

“Che sia giusto o meno usare questo termine”, spiega Anshel Pfeffer sul quotidiano israeliano Haaretz, “la vista di bande armate che attaccano e incendiano le case di un altro gruppo religioso, mentre l’esercito e la polizia non si preoccupano di arrestarle, dovrebbe effettivamente farci pensare ai pogrom”. La comunità internazionale resta a guardare l’ascesa dell’estremismo razzista israeliano, che ha sostenitori anche nel governo. Nessuno alza la voce né minaccia. Ci si rifiuta di pronunciare la parola apartheid, che però è stata usata da B’Tselem, Amnesty international e Human rights watch.

“L’occupazione è il nostro principale progetto nazionale”, commenta Zahava Galon, ex deputata israeliana di una sinistra pacifista che non esiste più in parlamento. “Dura da tanto tempo che non riusciamo a immaginarci senza. Le abbiamo dato tutto quello che avevamo, sapendo che avrebbe voluto sempre di più. Ci è costata la nostra anima”. E conclude: “L’occupazione ha 56 anni. Buon compleanno”. ◆ fdl

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Questo articolo è uscito sul numero 1518 di Internazionale, a pagina 17. Compra questo numero | Abbonati