“Una storia si può dire pensata fino in fondo quando ha preso la piega peggiore possibile”, si legge nell’opera teatrale I fisici di Friedrich Dürrenmatt. Chi negli ultimi giorni, mesi, perfino anni ha osservato la progressiva implosione del Credit Suisse non può che pensare a queste parole. “L’incidente all’inizio è improbabile, ma con il passare del tempo diventa sempre più possibile, fino a che non si verifica”, scrive ancora Dürrenmatt nella sua opera. Solo qualche mese fa nessuno riteneva possibile il fallimento del Credit Suisse. Ma questo esito non può essere considerato un incidente.

Nel 2007 la banca svizzera valeva in borsa cento miliardi di franchi (100,4 miliardi di euro), il 17 marzo 2023 il valore era sceso ad appena sette miliardi, esattamente quanto vale la Banca Cantonale Valdese. È quindi andata in fumo una spaventosa quantità di soldi, e la responsabilità è dei dirigenti dell’istituto, che hanno sottovalutato i rischi, e dei consigli d’amministrazione, che non hanno saputo tenerli sotto controllo. La presunzione del Credit Suisse è stata quella di sentirsi al sicuro perché aveva superato la crisi del 2008 senza aiuti dallo stato, a differenza della storica rivale Ubs. Il Credit Suisse credeva anche di aver trovato una nicchia piuttosto redditizia nel settore delle banche d’investimento, ma la sua gestione del rischio è stata del tutto insufficiente, come mostrano le perdite, che sono arrivate a decine di miliardi.

L’istituto si è giocato la fiducia. Nessuno credeva più che si sarebbe salvato: dal settore finanziario sono arrivate solo poche e piuttosto tiepide manifestazioni di solidarietà. A marzo si è arrivati al finale di partita. Il fattore decisivo non è stata tanto la comunicazione inefficace del governo o della banca centrale, la Banca nazionale svizzera, che ha fatto esattamente quello che ci si aspetta in una crisi simile dal prestatore di ultima istanza: il 16 marzo è accorsa in aiuto con un’enorme iniezione di liquidità. Purtroppo l’incendio non si poteva più spegnere.

Secondo le autorità di vigilanza la situazione attuale non è come quella del 2008

“Il capitalismo senza il fallimento è come la religione senza peccato. Non funziona”, ha detto l’economista Allan Meltzer. In altre parole, quando un’aziende non ha un modello d’affari sostenibile, deve poter fallire. Era il caso del Credit Suisse, come dimostrano la distruzione dei capitali e la fuga di clienti e creditori, che alla fine ha assunto tratti drammatici. Ma invece di essere liquidata, ora la banca è stata comprata dall’Ubs per tre miliardi di franchi. Gli azionisti sono stati dissanguati, perché riceveranno meno della metà del valore che le azioni della banca avevano il 17 marzo. Da un lato ci si potrebbe chiedere: come mai ci sono ancora tre miliardi di franchi per loro? Perché il governo svizzero garantisce all’Ubs nove miliardi di franchi per far fronte a eventuali perdite e per ulteriori sostegni alla liquidità. D’altro canto, gli azionisti hanno dovuto accettare la fusione, perché bisognava concludere l’operazione in fretta. Ma gli è stata negata la possibilità di votare, un clamoroso attacco ai loro diritti di proprietà. Inoltre, che tipo di segnale viene dato al mercato se forse neanche gli azionisti dell’Ubs volevano l’affare?

Costosi salvataggi

Dopo la crisi finanziaria del 2008 la Svizzera ha passato più di un decennio a introdurre nuove regole studiate per evitare altri costosi salvataggi a carico dei contribuenti (le regole per gli istituti “troppo grandi per fallire”). Questi piani prevedono che le attività finanziarie svizzere d’importanza sistemica, come la gestione dei pagamenti, possano essere separate e garantite. All’autorità federale di vigilanza sui mercati finanziari (Finma), inoltre, sono stati conferiti ampi poteri per ristrutturare una banca in difficoltà. Ma alla conferenza stampa del 19 marzo, in cui è stata annunciata l’operazione, è stato detto che queste norme non si applicano a un caso come quello del Credit Suisse, in cui è venuta meno la fiducia. Quindi per anni si è pianificato inutilmente? Il mantra “troppo grande per fallire” è ancora valido oggi come quindici anni fa?

Se la banca centrale e la Finma hanno spinto l’Ubs a comprare il Credit Suisse è in parte perché nei giorni scorsi si temeva il panico in borsa. Le pressioni sono arrivate anche da Washington e Londra. La Svizzera si è così sbarazzata di una banca zombi, ma si ritrova con una banca mostruosa, l’Ubs. Ora, infatti, il patrimonio di questo istituto sarà quasi il doppio del pil nazionale. La nuova Ubs è quindi decisamente “troppo grande per fallire”, un altro motto che torna con tutta la sua forza. E non si può dire che non ci fossero alternative all’acquisizione del Credit Suisse. Lo stato, per esempio, avrebbe potuto fare una sua offerta per la banca – per quanto scriverlo sia difficile per un liberale come me – anche a una frazione del prezzo delle azioni. In seguito avrebbe potuto privatizzare nuovamente la banca o alcune sue parti, evitando così che l’Ubs diventasse un gigante.

Stati Uniti
Un’altra banca in difficoltà

◆ Negli Stati Uniti continuano a crollare le azioni dell’istituto di credito californiano First Republic Bank, nonostante i tentativi di salvataggio attuati da alcune grandi banche, tra cui la JpMorgan. Il 20 marzo il titolo ha perso più del 47 per cento alla borsa di New York. Dopo il collasso della Silicon Valley Bank, i clienti della First Republic Bank hanno ritirato depositi per almeno settanta miliardi di dollari. The Wall Street Journal


Questa opzione avrebbe spaventato gli investitori e l’intero sistema finanziario molto più dell’affare concluso il 19 marzo? Nessuno può dirlo. Fino a pochi giorni prima le autorità di vigilanza bancaria e le banche centrali avevano affermato con sicurezza che l’attuale turbolenza non poteva essere paragonata a quella del 2008, perché oggi le banche erano molto più solide. Ma sembra solo un ottimismo di comodo, almeno a sentire i racconti delle persone coinvolte nell’affare.

È invece sicuro che queste decisioni avranno seri “effetti collaterali” sull’intero sistema finanziario. Perché quando certe aziende non possono fallire, le basi del capitalismo sono minate. Lo dimostravano già le operazioni di salvataggio durante la crisi finanziaria del 2008. Ha ragione il presidente del Credit Suisse, Axel Lehmann: “Il 19 marzo è un giorno storico e triste”. È una giornata nera per la piazza finanziaria, per molti dipendenti del Credit Suisse e soprattutto per la fiducia nell’economia di mercato. ◆ nv

Da sapere
Un affare molto rischioso

◆ Il 19 marzo, dopo un fine settimana d’intense trattative con il governo di Berna, la banca centrale e l’Autorità federale di vigilanza sui mercati finanziari (Finma), l’Ubs, la prima banca svizzera, ha annunciato l’acquisizione del rivale Credit Suisse, che praticamente scompare dopo 167 anni di storia. I soci del Credit Suisse riceveranno un’azione dell’Ubs ogni 22,48 azioni della loro vecchia banca, cioè 0,76 franchi (0,76 euro) per azione (il 17 marzo un’azione del Credit Suisse valeva 1,86 franchi). L’Ubs ha ottenuto nove miliardi di franchi di garanzie statali per la copertura di perdite superiori ai cinque miliardi. La banca centrale svizzera inoltre ha aperto due linee di credito, di cento miliardi di franchi l’una, con cui i due istituti potranno far fronte a problemi di liquidità. L’Ubs attuerà un programma di ristrutturazione che prevede di ridurre i costi di otto miliardi di euro all’anno fino al 2027. La strategia della nuova banca resterà concentrata sulla crescita in Asia e negli Stati Uniti. Due aspetti dell’accordo hanno suscitato particolari polemiche. Innanzitutto, richiamandosi all’eccezionalità della situazione, le autorità hanno fatto in modo che l’acquisizione non fosse sottoposta al voto degli azionisti. Inoltre, mentre i titolari di azioni del Credit Suisse ricevono dei soldi pur registrando una forte perdita, i possessori di un particolare tipo di obbligazioni dell’istituto, le Additional tier 1 (At1), hanno perso tutto il loro investimento. Le At1 sono una forma di debito che fa parte del capitale di una banca. In teoria si posizionano appena sopra le azioni nella procedura di rimborso in caso di fallimento e dovrebbero essere convertite in azioni quando le riserve di capitale scendono sotto una certa soglia. Per questo il 20 marzo le autorità bancarie dell’Unione europea si sono affrettate a dichiarare che non approvano la decisione della Svizzera. Gli investitori non sono sembrati entusiasti dell’accordo: in particolare i possessori di titoli At1 hanno annunciato un’azione legale. Neue Zürcher Zeitung


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Questo articolo è uscito sul numero 1504 di Internazionale, a pagina 106. Compra questo numero | Abbonati