Ho ascoltato alcune canzoni della Divina commedia di Tedua mentre provavo a leggere Metodo per diventare un altro di Édouard Louis, entrambi usciti da poco. Fare queste cose senza fermarsi ogni due o tre righe (o strofe), è impossibile. La rabbia, la commozione, la vergogna e la rimozione si mettono in mezzo, soprattutto per chi nasce subalterno e sente che i ricordi degli scarti – sono entrambe opere di memoria – s’incollano addosso.

Anche per i difetti formali, per le contraddizioni che provano a tirarsi fuori a morsi, tra crudezza e ingenuità. I pezzi di Tedua sono Intro, Outro e Bagagli, quelli più aperti e in cui capisco bene perché della metrica e dello stare a tempo di questo magnifico ragazzo genovese me n’è fregato sempre poco: mi ricorda quando a scuola possono dirti che parli male, che hai gli accenti storti, che si sentono la classe e la famiglia che hai dentro.

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Ascolto Tedua che dice “fuori di me” strascicando i suoni, il modo cui pronuncia “facevo il cassiere” come se stesse sputando un proiettile, per dire che quel lavoro è passato, ma c’è stato, e questo non rende persone migliori o più nobili, ma altererà sempre il modo in cui si mangia o si pensa ai soldi; è l’altro che si riaffaccia e ti richiama dentro.

O quando dice “Fratello pensa / Sei gangsta / ma sarai un’esca per la stampa della destra /che vorrebbe che un maranza non ci riesca” e pare di leggere Édouard Louis che parla dei suoi vecchi compagni di scuola nelle periferie francesi. Gli hater diranno che le parole sulla povertà ormai superata si somigliano tutte, ma ha senso che si ripetano: è un modo per farle esplodere in bocca. ◆

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Questo articolo è uscito sul numero 1515 di Internazionale, a pagina 94. Compra questo numero | Abbonati