Il pronome “io” è sempre in affanno. All’origine è parte di un “noi” originario: innanzitutto “noi esseri viventi” e, in seconda istanza, “noi esseri umani”. Lì dentro, però, “io” si sente men che zero, vorrebbe distinguersi e non ce la fa. Così trasloca in altri “noi”, tutti di cabotaggio più ridotto: noi maschi, noi bianchi, noi italiani, noi russi, noi ucraini, noi credenti, noi industriali, noi lavoratori, noi cosca, noi banda, noi felici pochi, noi oltreuomini, e via dicendo disordinatamente. Là per là gli sembra un passo avanti. Ma appena “io” si associa sul serio a uno di quei “noi”, si ritrova arroccato contro un “loro”. Bel guaio, la cosa gli complica non solo la vita ma anche la definizione di sé. Infatti se si distingue troppo finisce fuori del “noi” e rischia di confondersi con “loro”; se aderisce troppo al “noi”, se si protegge troppo da “loro”, perde i labili connotati che s’è dato. Che fare allora? Scappare via da ogni “noi”, ridurre tutti a “loro”, far parte a sé? A volte “io” si avvia per questa strada, immaginandosi di essere chissà quale individuo fieramente autonomo. Invece si ritrova con una o due lamentose proposizioni in testa, forse nemmeno veramente sue e buone al massimo per un borbottio minaccioso o scontento. Meglio tornare di corsa al “noi esseri umani”, al “noi esseri viventi” su questo vivo pianeta. “Io” passa, la vita facciamo che no.

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Questo articolo è uscito sul numero 1512 di Internazionale, a pagina 14. Compra questo numero | Abbonati