Forse invecchiare significa affacciarsi sulla fine del proprio mondo e credere che invece si tratti della fine del mondo. Più gli anni passano, più la credenza prende piede, e mantenersi lucidi è difficile. L’impressione dell’apocalisse si nutre proprio del fatto che tutto ci pare che stia andando in pezzi perché il cemento con cui abbiamo tenuto insieme il mondo noi, le nuove generazioni non sono più capaci di impastarlo. In realtà fatichiamo a riconoscere che quel cemento reggeva poco o niente già quando eravamo giovani ed è da qualche decennio che il formulario per nuovi cementi ci risulta al limite del comprensibile. Inutile che i più giovani ci dicano: stiamo lavorando a tenere insieme i pezzi, gli angeli per ora si limitano a suonare trombe d’aria e di guerra ma non hanno ancora rotto sigilli, diamoci da fare, forse facciamo in tempo. Noi ci crediamo poco, la memoria del nostro attivismo ci abbaglia e del loro nemmeno ci accorgiamo. Sappiamo solo che il tempo in cui si muore di caldo è passato lasciandoci miracolosamente vivi, ma intanto già sta cominciando il tempo in cui si muore di pioggia e chissà se la scamperemo. In tempi di neo-neofascismo, la filosofia da cellulare che frequentiamo di più è quella dell’allarme: adesso è allarme giallo, tra un’ora è rosso; concittadini, se perdete la proprietà e la vita è colpa vostra, non dite che non vi avevamo allertati.

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Questo articolo è uscito sul numero 1527 di Internazionale, a pagina 16. Compra questo numero | Abbonati