Le pagine scivolano via come se nulla fosse nel sensazionale libro d’esordio di un giovane iraniano che ha lasciato il suo paese perché stanco di lottare senza vedere un futuro, come purtroppo tanti altri. Frutto di cinque anni di lavoro e della laurea conseguita all’Accademia di belle arti di Bologna, sorprende la sua maturità da autore già affermato per la magistrale scorrevolezza narrativa, malgrado l’articolazione della narrazione, dei fatti privati e storici raccontati, che abilmente riesce a rendere inestricabili l’uno dall’altro. Inestricabili ci pare la parola più giusta, perché in questa autobiografia non sono ben distinti la realtà, e la sua memoria, dal sogno. E il sogno dall’incubo. Diviso in sei lunghi capitoli, corrispondenti ciascuno a un anno, riesce a costruire un racconto ipnotico su più di un ventennio di storia iraniana vista dal prisma più intimo, quello familiare, con Bita prima bambino, poi adolescente e infine giovane uomo. Ma se il tono paradossalmente non manca di leggerezza e delicatezza, la narrazione visiva è un gorgo del segno grafico, una vera foresta, e si torna così alla definizione di inestricabile. Nel primo capitolo il giardino di casa diventa quasi una foresta esotica, e annuncia il clima onirico. L’aspetto più straordinario è però l’uso degli occhi: delle palline nere che esprimono non solo lo straniamento ma l’abisso della disperazione esistenziale. Tra tanti memoir spesso facili, una notevole eccezione. ◆

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Questo articolo è uscito sul numero 1507 di Internazionale, a pagina 80. Compra questo numero | Abbonati