In futuro la televisione del 2023 non sarà ricordata. E se mai qualche storico avrà l’uzzolo di raccontarla, userà la parola flop. Per tre ragioni, azzardo. La prima è quella che conta di più: quasi tutti i nuovi programmi sono andati male, hanno deluso le aspettative, provocato malumori tra artisti e dirigenti e indifferenza negli spettatori. Flop anche della politica, con un governo che ha buttato nel cestino l’abusata retorica dell’autonomia del servizio pubblico per accaparrarsi tutto l’accaparrabile. E infine il flop del legame, che credevamo indissolubile, tra molti conduttori e quella Rai in cui erano cresciuti professionalmente. Unico motivo di consolazione, in questo desolante panorama è che, a prescindere dalle appartenenze ideologiche, dal credo religioso e dall’orientamento sessuale, il flop riguarda tutti. Un clima da tonfo democratico, una livella che non risparmia nessuno. Per citare una bella canzone di Calcutta: siamo Tutti falliti. Anche il successo di Fiorello con Viva Rai2, morning show di ottimi ascolti e buona critica, alla luce del 2023 horribilis perde lo smalto che merita, trasformandosi in un’isola senza più contatti con la terraferma. Per paradosso, consola di più fallire insieme che trionfare in solitaria. Un flop collettivo suggerisce l’idea che forse possa essere collettiva anche la risalita, mettendo da parte orgogli, personalismi e scorciatoie. Questo almeno è l’augurio per il 2025, perché temo che nel 2024 non cambierà molto. ◆

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Questo articolo è uscito sul numero 1542 di Internazionale, a pagina 86. Compra questo numero | Abbonati