“Il mistero del mondo è il visibile, non l’invisibile”, con questa citazione di Oscar Wilde Susan Sontag apriva il saggio del 1964 che due anni più tardi avrebbe dato il titolo a questa potente raccolta, oggi ripubblicata.

La proposta più importante era che di fronte all’arte si dovesse evitare di compiere la traduzione che di solito fa la critica (“L’interprete afferma: non vedete che X in realtà è – o significa – A?”), e bisognasse invece recuperare la forza nuda dell’opera, la luminosità della cosa in sé, imparando a vedere, ascoltare e percepire di più. All’epoca Sontag aveva scritto il suo primo romanzo e ne preparava un secondo, si era trasferita a New York, passava le sue estati a Parigi, vedeva un film al giorno e aveva deciso di non intraprendere la carriera accademica.

Gli altri scritti applicano il metodo a oggetti diversi (tra l’altro i film di Godard e Besson, i romanzi di Genet e Sarraute, i saggi di Simone Weil e di Lukács, ma anche fenomeni come gli happening o il camp di uno dei saggi più famosi).

Tutti restituiscono la cifra di una modernità eroica, tra la desolazione della ricostruzione e la capitolazione del postmoderno, che trent’anni dopo, in una postfazione, l’autrice si augurava che nuovi lettori potessero rifondare, convinta che “i giudizi di gusto espressi nel libro possono aver trionfato. I valori che a quei giudizi erano sottesi, no”. ◆

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Questo articolo è uscito sul numero 1463 di Internazionale, a pagina 96. Compra questo numero | Abbonati