Non possiamo dire il suo nome né l’età. O fornire altri elementi che permettano d’identificare i suoi familiari. Possiamo solo dire che si tratta di una ragazza, la chiameremo Raheleh, proveniente da un quartiere povero di Teheran. La sua storia è stata rivelata da un’artista iraniana che si è impegnata ad aiutare economicamente la sua famiglia, devastata dalla violenza della repressione. Anche lei ha chiesto il più rigoroso anonimato.

Quando Raheleh è tornata dalla madre, dopo essere stata arrestata a novembre o dicembre per aver manifestato, era in condizioni terribili. Era stata picchiata e violentata con diversi oggetti, al punto che le ferite nella zona anale hanno richiesto dodici punti di sutura. Ma era anche determinata a far conoscere la brutalità che aveva subìto. Come fare? In Iran una famiglia povera non ha gli stessi mezzi delle classi medie o alte. Un vicino si è offerto di aiutarla a contattare un’organizzazione per la difesa dei diritti umani. Ma in realtà si è rivolto agli agenti del regime. Raheleh è stata di nuovo arrestata, dichiarata pazza e mandata in un istituto psichiatrico, dov’è morta poco dopo. “Non ha retto i farmaci”, hanno detto alla madre. Anche lei è stata arrestata e violentata. Avvertita da un’amica della famiglia, l’artista ha pagato la cauzione per liberarla.

Una donna arrestata a Teheran, il 10 novembre 2022 (SalamPix/Abaca/Ipa)

Nessuna difesa

Questo racconto di repressione feroce sembra autentico, soprattutto nel momento in cui l’Iran ha annunciato, il 14 gennaio, l’impiccagione di Alireza Akbari, un uomo di nazionalità iraniano-britannica accusato di spionaggio. “Anche se non si può escludere una certa esagerazione, motivata dall’odio delle persone per il regime, quello che è successo a questa ragazza non mi sorprende”, commenta da Parigi l’avvocato Karim Lahidji, fondatore della Lega iraniana per la difesa dei diritti umani e presidente onorario della Federazione internazionale per i diritti umani (Fidh). “Se ti opponi al regime non sei più considerato un essere umano, non sei più niente. Sei solo uno schiavo, e come prevede la sharia, la legge islamica, puoi essere frustato, violentato e picchiato a morte. E i tuoi averi sono sequestrati”.

L’avvocato, noto per aver difeso centinaia di oppositori al regime dello scià e poi dei mullah, racconta: “Nel 1981, quando ero ricercato dalla polizia, mi hanno preso tutto e hanno arrestato mio figlio di quindici anni. Grazie a un dirigente del regime che conoscevo bene sono riuscito a farlo liberare. Ma il giudice di un tribunale rivoluzionario di Teheran ha ordinato che prima fosse punito con trenta frustate, semplicemente perché era mio figlio e non aveva rivelato il mio nascondiglio. Quello che succedeva all’inizio della rivoluzione islamica succede ancora oggi”.

Un giovane intellettuale iraniano di passaggio a Parigi aggiunge: “I fatti in corso in Iran sono molto più gravi di quello che si sa in Europa. Si parla tanto degli arresti degli artisti, delle attrici o degli sportivi. Ma il regime è attento a trattarli meglio. L’attrice Taraneh Alidoosti è uscita dal carcere di Evin senza velo e sorridente, accolta dai suoi amici del cinema”. Alidoosti è stata liberata il 4 gennaio, dopo aver pagato una cauzione di un miliardo di toman, circa 25mila euro. “Nulla a che vedere con la repressione ben più terribile esercitata contro le classi popolari e le minoranze. Queste persone non le difende nessuno”.

Miliziani e criminali

La differenza è evidente nel caso dei quattro giovani condannati a morte e uccisi con l’accusa di “ostilità contro Dio” e “corruzione sulla Terra”, in seguito a confessioni estorte sotto tortura e a processi sbrigativi condotti senza avvocati. Venivano tutti da contesti svantaggiati. Mohsen Shekari, 23 anni, lavorava come cameriere in un caffè di Teheran. Majid Reza Raznavard, 23 anni, impiccato pubblicamente a una gru a Mashhad, nel nordest dell’Iran, non aveva un impiego fisso. Seyyed Mohammad Hosseini, 39 anni, era un operaio orfano di entrambi i genitori. Mehdi Karami, 22 anni, era figlio di un venditore ambulante di fazzoletti. Le sue ultime parole hanno sconvolto l’Iran: “Papà, la pena è stata pronunciata. Sono stato condannato a morte. Non dirlo alla mamma”.

Un ritratto di Khomeini a Karaj, l’8 novembre 2022 (SalamPix/Abaca/Ipa)

Accanto alla repressione ufficiale, c’è quella esercitata nell’ombra, che anche in questo caso prende di mira i poveri e risparmia le classi alte. È la repressione compiuta dai miliziani, dagli agenti in borghese e dai criminali. “Dai tempi dello scià, il regime si serve di loro per reprimere le manifestazioni. Li chiamavamo gardan kolof”, letteralmente i “colli grossi”, ricorda l’intellettuale iraniano. “Erano bande di quartiere guidate da un capo. Oggi il regime fa intervenire i mahkumin, i ‘condannati’, che arrivano direttamente dal carcere. Alcuni portano dei braccialetti elettronici. E sono molto peggio dei gardan kolof”.

Infine, le famiglie povere e quelle della classe media devono affrontare anche l’incubo delle pesanti cauzioni per la liberazione dei figli incarcerati, che ammontano a miliardi di toman (migliaia di euro) e li obbligano a indebitarsi per anni, o addirittura a vita, e a ipotecare le loro case.

“A proposito delle disuguaglianze all’interno delle manifestazioni e delle risposte del regime, la violenza non è l’unico elemento da prendere in considerazione, c’è anche l’ipocrisia”, commenta lo storico Jonathan Piron, componente di Etopia, un centro di ricerca indipendente con sede a Bruxelles, in Belgio, e ricercatore associato del Gruppo di ricerca e informazione sulla pace e la sicurezza (Grip). Piron fa un esempio: “All’inizio di gennaio è circolato un video girato nel centro commerciale Opal mall, a nord di Teheran. Mostra delle donne che camminano senza il velo. Mentre in occidente queste immagini sono state interpretate come il segno che le cose stanno cambiando, in Iran indicano la prosecuzione delle disuguaglianze. Solo le classi più ricche hanno questi vantaggi, mentre i quartieri e le classi povere e popolari continuano a subire le stesse restrizioni. In quel momento nei dintorni del bazar di Teheran o altrove nel paese l’obbligo d’indossare il velo non era affatto cambiato”.

Eppure, fu proprio in nome dei mostazafin (i “diseredati”, termine ripreso dal Corano) che si realizzò la rivoluzione islamica del 1979. “I mostazafin sanno meglio di Jimmy Carter cosa significano i diritti umani”, aveva dichiarato l’imam Ruhollah Khomeini, il fondatore della repubblica islamica, riferendosi al presidente democratico degli Stati Uniti dell’epoca.

In occasione di cerimonie, parate o commemorazioni, i leader del regime continuano a celebrarli, a rendere omaggio alla loro umiltà, alla loro pietà, al loro coraggio e al loro martirio: sono stati loro la carne da cannone nella guerra tra Iraq e Iran dal 1980 al 1988. “Voi siete la torcia dell’islam”, amava dire Khomeini.

Una spaccatura imprevista

È uno dei motivi per cui i mostazafin hanno a lungo alimentato, insieme ai commercianti del bazar, il bacino di consensi del regime. Sono loro a costituire i battaglioni del basij, la milizia islamica incaricata del controllo delle strade e della società, e spesso hanno votato per i candidati conservatori. Nel 2009 non hanno partecipato alle manifestazioni della “rivoluzione verde” contro le frodi elettorali che avevano portato alla rielezione del presidente Mahmoud Ahmadinejad.

Oggi i quartieri più poveri di Teheran, nel sud della città, sono ancora quelli in cui si contano meno proteste. Ma per il regime le classi popolari sono diventate la minaccia principale. Per questo la repressione nei loro confronti è così feroce.

Nel 2017 e 2018, e soprattutto nel 2019, c’è stata una spaccatura che probabilmente il regime non aveva previsto. In quelle occasioni sono stati i giovani poveri e delle classi medio-basse ad affrontare le forze del regime nel corso di violente proteste contro l’aumento dei prezzi dell’energia. Quegli uomini e quelle donne non si riconoscevano più nel vocabolario religioso. Ma il resto dell’Iran non si è mosso, lasciando che la loro rivolta fosse schiacciata nel giro di tre settimane. Secondo le ricerche dell’agenzia di stampa Reuters la repressione ha causato almeno 1.500 morti. E ha sconfitto il movimento.

A quattro mesi dalla morte di Mahsa Jina Amini, avvenuta il 16 settembre a Teheran, e dopo l’uccisione di più di cinquecento manifestanti e l’arresto di altri sedicimila, il movimento si sta indebolendo. “Le proteste che radunano diverse decine o centinaia di persone in varie località del paese si stanno spegnendo”, riconosce Jonathan Piron. “La repressione ha contribuito a ridurre lo slancio della protesta. Le prime condanne a morte, l’inasprimento della violenza del regime e l’invio di ulteriori forze di sicurezza nei luoghi di alcune mobilitazioni, come le cerimonie per il quarantesimo giorno di lutto dalla morte di un manifestante, hanno avuto delle conseguenze. Va detto anche che manifestare ha un costo per una parte degli iraniani, già pesantemente colpiti dalla crisi sociale ed economica”.

Il ricercatore aggiunge: “Le chiusure imposte dal regime ai negozi dei commercianti in sciopero e i blocchi degli stipendi dei funzionari che hanno sostenuto le proteste hanno contribuito a scoraggiare alcuni manifestanti. Inoltre, le disuguaglianze economiche sono un elemento che può spingere una parte della popolazione a non scendere in piazza”.

Un vasto repertorio

Tuttavia, le mobilitazioni vanno oltre le manifestazioni, anche se sono state soprattutto la regolarità e la portata delle proteste, che hanno toccato più di 250 località, a preoccupare il regime. Il repertorio della contestazione è più vasto, prevede gli slogan gridati di notte dai palazzi, i graffiti, le canzoni, la condivisione di esperienze e informazioni sui social network, le petizioni, gli scioperi.

“Queste mobilitazioni ‘alternative’ continuano, alcune con minore intensità, ma contribuiscono ad alimentare la logica della contestazione e la sua memoria”, continua Piron. “Nell’ambiente universitario sono organizzate in difesa degli studenti espulsi o incarcerati, e di altri attivisti e leader studenteschi. C’è poi chi s’impegna per gli insegnanti che hanno criticato la repressione, e i cui stipendi sono stati bloccati dal regime per ritorsione”.

“Sembra certo che ci saranno nuove manifestazioni, a breve o a medio termine”, prevede il ricercatore. “Le cause della protesta non sono state rimosse. Il regime ha risposto poco alle aspettative, non ha placato la rabbia con nuove politiche economiche e sociali. Le poche misure adottate sono state neutralizzate dall’inflazione. La memoria della rivolta e della repressione è tenuta viva anche attraverso i social network e sembra perfino essere arrivata in alcuni ambienti conserva­tori”. ◆ fdl

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Questo articolo è uscito sul numero 1495 di Internazionale, a pagina 24. Compra questo numero | Abbonati