In un articolo uscito sul Wall Street Journal, Dana Mattioli e Konrad Putzier hanno ipotizzato che il lavoro in ufficio come lo conosciamo oggi potrebbe presto sparire. Hanno citato il piano di Twitter, che vorrebbe consentire a circa cinquemila dipendenti di lavorare da casa a tempo pieno. “Molti dirigenti”, hanno spiegato, “sottolineano il successo di un esperimento di lavoro a distanza senza precedenti. La produttività non sembra aver risentito del fatto che milioni di lavoratori sono stati costretti a lavorare da remoto per mesi”. Eppure, se vogliamo capire perché secondo uno studio il 74 per cento delle grandi aziende oggi vuole impiegare in questo modo almeno una parte del personale, dovremmo ammettere che il lavoro da casa non è “senza precedenti” e neanche “un esperimento”, ma un metodo di organizzazione del lavoro cruciale per lo sviluppo dell’economia moderna. Quando il capitalismo prese piede nel Regno Unito, gli industriali si affidavano al sistema del lavoro a domicilio: i subappaltatori distribuivano le materie prime a persone che lavoravano a cottimo nelle loro abitazioni. Questo tipo di organizzazione andò avanti per secoli, restando prevalente nella manifattura di tessuti, ceramica, guanti, merletti, maglieria e altri articoli fino all’ottocento.
Oggi, dopo essere rimasti a casa per settimane, molti di noi affrontano la prospettiva di tornare in ufficio con un misto di incertezza e timore. È un sentimento che gli uomini e le donne del settecento avrebbero riconosciuto. A quei tempi la maggioranza delle persone preferiva lavorare a casa, la fabbrica era solo l’ultima risorsa. Il sistema del lavoro a domicilio probabilmente significava faticare tanto per un salario minimo, ma permetteva ai lavoratori di esercitare un qualche controllo su quello che facevano e quando. Potevano continuare a seguire i figli, accudire gli animali e coltivare l’orto senza smettere di celebrare le festività religiose e popolari, che avevano un ruolo centrale nella prima società moderna. Al contrario, come dice lo storico N.S.B. Gras, le fabbriche si affermarono “esclusivamente a scopi disciplinari, in modo che gli operai potessero essere efficacemente controllati sotto la supervisione dei capomastri”. Un altro studioso, Sidney Pollard, osserva che “erano poche le zone del paese in cui le industrie moderne, se concentrate in grandi edifici, non fossero associate alle prigioni, ai ricoveri per i poveri e agli orfanotrofi”.
Il caminetto acceso
Dal momento che i primi colletti bianchi di solito svolgevano mansioni amministrative, i primi “uffici” spesso erano un’appendice privilegiata della fabbrica. Negli anni cinquanta dell’ottocento, per esempio, un impiegato di alto livello lavorava in un ambiente che “ricordava molto la sua casa per l’arredamento, il caminetto acceso, le tende e, verso la fine del secolo, l’illuminazione a gas”. Ma con la diffusione del lavoro impiegatizio, l’ufficio fu assoggettato alle stesse tecniche di sorveglianza con cui Frederick Winslow Taylor suddivise il lavoro industriale in componenti semplici e accuratamente cronometrate. I testi di gestione aziendale dei primi decenni del novecento rivelano il tentativo ossessivo di controllare i compiti più banali, come “l’atto apparentemente innocuo di asciugare l’inchiostro con la carta assorbente, accusato di sprecare 35 secondi, mentre la minuscola differenza di tempo tra riunire dei documenti con una graffetta o un laccio fermacarte era oggetto di grandi discussioni”. Oggi quasi nessuno è valutato sulla base della velocità con cui fa ruotare la sedia girevole (secondo una guida del 1960 dovrebbe essere di 0,009 minuti). E questo perché, facendo uscire i lavoratori da casa, l’ufficio (proprio come la fabbrica) gli dette un potere sociale collettivo. Nonostante gli sforzi degli “esperti di efficienza”, gli impiegati cominciarono a organizzarsi, conquistando un qualche controllo sulla loro vita lavorativa.
Di conseguenza, per ogni vostro conoscente che vuole restare a casa, potete probabilmente trovarne un altro a cui manca la socialità di un posto di lavoro condiviso: un luogo dove chiacchierare, stringere amicizie e, a volte, ribellarsi. La contraddizione si manifesta nell’entusiasmo delle grandi aziende per l’abolizione dell’ufficio. Naomi Klein sostiene che la pandemia ha fornito una copertura a quanti vorrebbero attuare pratiche sociali oppressive associate alla tecnologia. Sicuramente nel posto di lavoro il covid-19 ha reso molti di noi quasi totalmente dipendenti dal software, in modi che potenzialmente danno un potere spaventoso ai datori di lavoro. Le precedenti versioni di Zoom, per esempio, contenevano l’opzione “tracciamento dell’attenzione” che, in determinate circostanze, notificava agli amministratori se gli utenti si scollegavano per più di mezzo minuto. Questa funzione è stata eliminata, ma è facile capire come lavorare a casa potrebbe rendere perfettamente normale il tracciamento dei dipendenti. “Il mio capo sa ogni maledetta cosa che faccio”, ha spiegato a Vox una lavoratrice. “Ho la sensazione di dover essere perennemente davanti al computer e lavorare, perché altrimenti il software mi disconnette per inattività o il mio capo mi manda un’email di controllo”.
Nell’ottocento i capitalisti volevano che i dipendenti fossero concentrati in un posto per controllarli, e questo significava pagare fabbriche costose in cui potevano organizzarsi fastidiosi sindacati. Ma oggi sorvegliare un lavoro atomizzato e a distanza è più facile di quando era concentrato in un unico edificio. Tenendo a casa il personale, i superiori possono disarticolare la collettività e allo stesso tempo risparmiare sull’affitto.
Resta da vedere quante aziende daranno seguito alla nuova retorica
anti-ufficio. Ma in questi strani tempi, l’entusiastica adozione di un sistema di lavoro “a domicilio” high tech potrebbe essere imminente, con il capitalismo che torna al suo futuro usando sistemi sempre più distopici. ◆ gc
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Questo articolo è uscito sul numero 1365 di Internazionale, a pagina 40. Compra questo numero | Abbonati