In Birmania a gennaio il clima è secco e fresco. In questo periodo i monaci vanno in giro per il paese a tenere i loro sermoni. A Rangoon un’associazione buddista di quartiere ha invitato il monaco Ashin Issariya dal sudest del paese. Issariya ha accettato l’invito e alloggia nel magazzino di una farmacia gestita dalla famiglia che lo ospita a Hlaing Tharyar, un polveroso agglomerato industriale dall’altro lato del fiume rispetto al centro cittadino.
Questo monaco dai modi semplici, con la tradizionale tonaca marrone portata su una spalla sola, è arrivato per il sermone una domenica sera. È stato accolto come un eroe. Più di mille persone sono venute a sentirlo parlare da una piattaforma rialzata, incorniciata da petali fluorescenti e illuminati da luci al neon verdi, simili a piume di pavone.“In Birmania nessuno legge”, ha detto alla folla, con serena autorità. “A che serve essere uno stato a maggioranza buddista se le persone sono ignoranti, avide, disoneste e arrabbiate?”. Si sono sentiti mormorii d’approvazione. “Ho cercato di portare dei cambiamenti in questo paese, e per questo ho rischiato la vita”, ha proseguito. “Non ho avuto paura di dire ad alcune persone che sbagliavano. Ho denunciato le malefatte del generale Min Aung Hlaing (il comandante in capo delle forze armate birmane). Ho sacrificato la mia vita per il dhamma (gli insegnamenti del Budda)”. Poi, dopo una pausa, ha aggiunto: “Ma poiché la maggioranza delle persone qui non osa denunciare gli errori degli altri, nel paese l’adhamma (l’ingiustizia) e l’illegalità sono ancora diffuse”.
Per Issariya, un monaco attivista noto in passato come King Zero, il buddismo non è solo una questione d’identità, rituali e comunità, tutti elementi fondamentali della tradizione buddista theravada della Birmania. È anche un invito all’azione politica.
Issariya è stato uno dei leader della rivoluzione zafferano del 2007, chiamata così per il colore delle tuniche dei monaci e delle monache che guidavano le manifestazioni a favore della democrazia e contro la giunta militare, al potere dal 1962. Dopo la rivoluzione Issariya dovette sfuggire a una caccia all’uomo di due settimane, al termine della quale fuggì attraversando il confine con la Thailandia.
Solo quattro anni fa è finalmente tornato in una Birmania formalmente democratica. La sua lotta contro l’adhamma ha trovato un nuovo obiettivo: il nazionalismo militante buddista. È questa l’ideologia che ha alimentato sia le tensioni comunitarie islamofobe degli ultimi anni sia il genocidio della minoranza musulmana rohingya nello stato di Rakhine. A fine gennaio la corte internazionale di giustizia dell’Aja ha ordinato alla Birmania di “prendere tutte le misure in suo potere” per proteggere i rohingya dal genocidio.
Violenza e religione
“Se fossi nato in un paese sviluppato come gli Stati Uniti, non mi dovrei preoccupare di queste cose, potrei concentrarmi sulla meditazione”, ironizzava Issariya quando l’ho incontrato, il giorno dopo il suo sermone sopra la farmacia, dove aveva dormito su un materasso per terra. Ha 45 anni, la testa rasata a zero e le sopracciglia folte. Quando parla tende a chiudere gli occhi. I buddisti nella maggior parte degli altri paesi sono fortunati, mi ha detto, perché non vengono commesse violenze in nome della loro religione. “Ma qui dobbiamo continuare a fare politica finché il paese avrà bisogno del nostro aiuto”.
Nonostante tutto, Issariya continua a sostenere Aung San Suu Kyi
Issariya e un centinaio di monaci cercavano di contrastare il buddismo militante dall’interno del sangha, la nutrita comunità di monaci e religiosi del paese. Circa l’88 per cento dei 54,3 milioni di abitanti della Birmania è buddista.
L’attuale ondata di nazionalismo birmano ha origini relativamente recenti. È cominciata nel 2012 come un boicottaggio di negozi gestiti da musulmani, ma in poco tempo ha portato all’approvazione di leggi che limitano i diritti dei non buddisti, ratificate dal parlamento nel 2014
e 2015.
Il nazionalismo buddista ha fornito l’armamentario ideologico per il genocidio della minoranza islamica rohingya, una feroce campagna segnata da uccisioni, stupri e il trasferimento forzato di quasi un milione di profughi in Bangladesh, che ha portato alla creazione del più grande campo profughi del mondo. La retorica del nazionalismo buddista, diffusa da gruppi come il MaBaTha (l’organizzazione per la difesa della razza e della religione) e da figure carismatiche come Ashin Wirathu, il monaco che la rivista Time ha definito “il volto del terrore buddista”, sostiene che la Birmania è uno stato-nazione la cui maggioranza è minacciata dalle minoranze musulmane.
La voce della minoranza
Issariya è a capo del Comitato anti- adhamma, di cui fanno parte molti ex attivisti della rivoluzione zafferano. Il gruppo predica la tolleranza e organizza iniziative di sensibilizzazione interreligiosa. Questi monaci progressisti sono la minoranza in un paese dove quasi la metà degli uomini buddisti è stato, a un certo punto della sua vita, un monaco. Il loro compito è quello di contrastare dieci anni di propaganda di monaci militanti, per esempio Ashin Nyanissara, che durante l’esodo dei rohingya ha dichiarato che “i musulmani hanno quasi comprato le Nazioni Unite”.
Gli sforzi di Issariya hanno avuto una spinta propizia lo scorso anno, quando Wirathu è stato accusato di eversione ed è entrato in clandestinità. Il movimento così ha perso il suo portavoce più carismatico. “Non credo che la diffusione del MaBaTha abbia davvero il successo che ci fanno credere abbia”, dice Issariya. “Molte persone li hanno seguiti perché si sono presentati come difensori dell’orgoglio buddista, ma non credo siano a favore dell’odio e della pulizia etnica”.
Issariya è nato a Kungyangon e ha seguito studi regolari solo fino ai 13 anni, quando la sua istruzione è stata interrotta dalle rivolte filodemocratiche del 1988. I suoi genitori lo hanno incoraggiato a indossare la toga e lui ha scoperto di amare molto il rigore, il senso di comunità e il concetto buddista di “gentilezza amorevole”. “Il punto non è mai stato ritirarsi in se stessi o nel monacato”, ha spiegato. “C’era una grande biblioteca e i nostri insegnanti c’incoraggiavano a leggere e a discutere liberamente l’attualità”. Le domeniche, quando non c’era lezione, si affollavano intorno alle radio per ascoltare i discorsi di Aung San Suu Kyi – che allora viveva agli arresti domiciliari e oggi è la leader de facto del governo – oltre ai notiziari in inglese di Bbc e Voice of America: rari messaggi dal mondo esterno.
◆ 1975 Nasce nella township di Kungyangone, a Rangoon, in Birmania.
◆ 1988 Interrompe gli studi e, incoraggiato dai genitori, diventa un monaco buddista.
◆ 2007 È uno dei leader della rivoluzione zafferano contro la giunta militare. Alla fine della rivoluzione è costretto a scappare in Thailandia.
◆ 2016 Torna in Birmania e si impegna pubblicamente contro il nazionalismo buddista. Gira per il paese e tiene dei sermoni in cui diffonde messaggi di tolleranza e non-violenza.
Data la sua formazione di attivista democratico, Issariya sostiene Suu Kyi, anche oggi che la comunità internazionale l’accusa di essere indifferente alla persecuzione dei rohingya. Come la maggior parte dei birmani, Issariya continua a vederla come la madre della nazione. Mentre gli osservatori esterni vedono sempre più i monaci militanti, l’esercito e una Suu Kyi senza cuore come parte di un unico insieme, alcuni esponenti del sangha cercano di introdurre delle distinzioni.
Resta da capire se il loro messaggio sarà più efficace, ma è l’unico modo per criticare le istituzioni birmane, che reagiscono con maggiore durezza quando ricevono pressioni esterne. A gennaio, in attesa che la corte di giustizia dell’Aja ordinasse alla Birmania di proteggere la minoranza, Rangoon era tappezzata di cartelli rivolti ad Aung San Suu Kyi con su scritto “siamo con te”. Ma se Issariya mantiene un atteggiamento morbido su Suu Kyi, usa la sua autorità per criticare i monaci pieni d’odio.
“I laici sarebbero incriminati se dicessero le cose che dico io”, ha detto Issariya. In Birmania monaci e monache sono una classe protetta. Le persone non possono rivolgersi a loro senza pronunciare una sfilza di epiteti onorifici. Il Comitato anti-adhamma di Issariya e i nazionalisti del MaBaTha stanno combattendo monaco per monaco. Non sono neanche d’accordo su chi fosse il Budda Gautama, il fondatore del buddismo: “Un nazionalista che difendeva la sua ‘razza’ e la sua ‘religione’” secondo il MaBaTha, un modello di “libertà d’espressione” e non violenza, secondo Issariya.
Oggi Issariya vive nel monastero che ha fondato a Hpa-An, nello stato di Karen, vicino al confine con la Thailandia, ma è sempre in giro per il paese per predicare, spinto dal crescente successo delle sue idee. Collabora con altri monaci e con attivisti laici.
L’opposizione al nuovo nazionalismo buddista in Birmania si è sviluppata nella primavera del 2014, secondo Matthew Walton, uno dei principali studiosi del buddismo birmano. I detrattori di Wirathu, come Issariya, sono stati etichettati come traditori, costretti a difendersi pubblicamente, e hanno ricevuto minacce di morte. Ma secondo Maung Zarni, un attivista per i diritti dei rohingya che vive nel Regno Unito, “i monaci hanno un certo grado di protezione, quindi non credo che andranno davvero in prigione. Può darsi che non lottino contro il razzismo come farebbe un attivista laico, ma nessuno può accusare un monaco buddista di diffondere ideologia occidentale”. All’interno dell’ampio corpus del buddismo theravada, ci sono “molti valori ed esempi storici che promuovono il pluralismo religioso, scoraggiano i discorsi d’odio, e incoraggiano una visione più critica della disinformazione”, hanno scritto Walton e la studiosa del buddismo Susan Hayward.
“Personalmente non sono religioso, ma nella nostra società non sarà possibile fare niente senza il sostegno dei monaci”, dice l’attivista interreligioso Thet Swe Win. Il fatto che Issariya si trovi a suo agio nell’impegno politico pubblico e che sia, come molti birmani, un utente entusiasta di Facebook aiuta.
A bordo della zattera
Naturalmente la retorica progressista, o eventuali nuovi arresti di nazionalisti buddisti come Wirathu, non sono di per sé sufficienti a contrastare un’intolleranza che ha radici profonde. È probabile che niente cambierà se il governo di Aung San Suu Kyi creerà delle politiche per integrare le 135 etnie del paese e non definirà una soluzione praticabile per i rohingya. Ma l’ultima serie di leggi contro i musulmani è stata la diretta conseguenza dell’attivismo dei monaci. Forse la controparte progressista seguirà la stessa strada.
Come ha sostenuto Issariya nel suo discorso, il buddismo è politico: “Gli insegnamenti del Budda non sono solo detti, ma una zattera per attraversare il fiume e raggiungere l’altra sponda”. Un punto di partenza per trovare soluzioni a problemi creati dagli esseri umani. ◆ ff
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Questo articolo è uscito sul numero 1364 di Internazionale, a pagina 70. Compra questo numero | Abbonati