Video di capre prese a calci postati in rete, orsi uccisi a fucilate. Le violenze contro gli animali riempiono le pagine di cronaca insieme alle violenze che fanno più discutere: femminicidi, episodi di razzismo e odio verso i migranti, atti di autolesionismo che scatenano competizioni su TikTok. Più si parla di eliminare completamente la violenza dalla nostra società, anche a partire dalle parole (pensiamo al dibattito sul linguaggio inclusivo, gli asterischi e lo schwa), più una specie di estetica della violenza fatta di stupri di gruppo e calci ad animali indifesi sembra tornare con prepotenza un po’ ovunque. Perché? Come ha sostenuto Byung-Chul Han nel suo Topologia della violenza (Nottetempo 2020), ciò che chiamiamo “violenza” è proteiforme: cambia aspetto, si adatta alla natura del contesto sociopolitico, agisce anche dove sembra essere sparita. Dovremmo fare i conti con una cosa: non esiste una società senza violenza, perché la violenza – non ci si scandalizzi – è strutturale alla vita animale dotata di “volontà di potenza”. Il punto, da discutere con urgenza e senza moralismo, è come ri-orien­tare questa violenza. Il rischio è che, a furia di proibirla del tutto, torni a esplodere dove non dovrebbe, “regalandoci” questi orribili casi di cronaca. Del resto la rivoluzione francese non si è fatta con gli asterischi, e i partigiani non ci hanno liberato chiedendo il permesso: se insegnassimo a usare la rabbia per la rivoluzione, forse non avremmo una violenza usata per la repressione. ◆

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Questo articolo è uscito sul numero 1532 di Internazionale, a pagina 98. Compra questo numero | Abbonati