Questo breve libro di tre racconti s’inserisce in quella corrente di cui parlavamo un paio di settimane fa: una letteratura prodotta fuori del mondo occidentale che deve molto a una forma di narrazione orale. A volte scrivere sembra ridursi sempre al trovare la parola perfetta, la sintassi più funzionale, la chiarezza del significato. L’incedere della scrittura di Marina Closs ricorre invece alle ripetizioni, entra ed esce dalla narrazione, smentisce, restituisce un enigma. Vera Pepa è una donna guaranì condannata dalla sua comunità per una nascita gemellare; Demut parte dalla Germania su una nave, imbarcandosi in un amore incestuoso di cui non è consapevole; Adriana è alla ricerca della propria sessualità. Tre donne, con lingue proprie e diversissime, raccontano il rapporto con il corpo, la maternità, l’identità, trasportandoci dentro atmosfere in cui l’austerità dell’ambiente si scontra con visioni anche ingenue della realtà. L’autrice argentina, classe 1990, non offre consolazioni: le sue personagge abitano mondi ostili e respingenti, in cui l’esperienza di libertà non porta a una redenzione ma a esperienze di solitudine e di marginalità. Eppure i tre tuoni delle loro voci musicali e ritmate squarciano la quarta parete ponendosi in continuo dialogo con chi legge, reclamando con ostinazione il desiderio di essere ascoltate, e la legittimità delle loro storie. ◆
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Questo articolo è uscito sul numero 1643 di Internazionale, a pagina 90. Compra questo numero | Abbonati




