“Non abbiamo da mangiare. Ho dovuto vendere mia figlia per trentamila afgani (250 euro)”. Uscita dalla ressa con l’hijab sgualcito e il volto graffiato, una donna urla il suo dolore. Dietro di lei ce ne sono altre, imprigionate nella mischia. Avvolte in burqa azzurri o niqab neri, molte inciampano, altre svengono. Ci sono bambini che piangono, uomini che picchiano, corpi a terra calpestati.

Gli afgani sono disposti a morire per mangiare. Il 23 gennaio più di mille persone hanno forzato i cancelli della provincia di Herat implorando i taliban di aiutarle a superare l’inverno. Una calca impressionante che ha provocato molti feriti. I colpi di avvertimento sparati in aria dai taliban non hanno fatto arretrare la massa di sfollati, composta soprattutto da donne. “Abbiamo subìto troppe sanzioni”, ci diceva due ore prima il responsabile taliban della zona, che abbiamo incontrato nel suo ufficio. “Il 97 per cento degli afgani ha bisogno di aiuto ma noi non abbiamo i mezzi. Su cento persone bisognose possiamo assisterne una decina”. E continuava assicurando che “la situazione è sotto controllo. Sappiamo gestire le cose”.

Tutti guardano al vertice in corso a Oslo, in Norvegia, il primo tra i taliban e i rappresentanti occidentali per parlare dell’emergenza umanitaria: “Le cose andranno meglio”, ha concluso l’uomo. Queste scene di caos sotto lo sguardo sopraffatto, se non passivo, delle autorità raccontano l’abisso in cui è sprofondato l’Afghanistan. Cinque mesi dopo la sconfitta statunitense e il trionfale ritorno al potere dei taliban, gli aiuti internazionali che tenevano in piedi il paese sono stati arrestati e i beni della banca centrale afgana (9,5 miliardi di dollari) sono stati congelati dagli Stati Uniti. Questo, secondo l’Onu, ha provocato una delle peggiori catastrofi umanitarie del mondo. La carestia minaccia 23 milioni di persone, cioè più della metà della popolazione. A Herat, la terza città del paese, ha già colpito con violenza. Nei campi profughi, dove si sopravvive in alloggi di fortuna o nel fango, “la situazione si aggrava ogni giorno di più”, testimonia un operatore umanitario.

Vendere la figlia

La guerra ha lasciato senza casa alcune famiglie, altre sono finite per strada a causa della povertà endemica ma anche per le conseguenze del riscaldamento climatico: la siccità sta facendo colare a picco un paese rurale, sconvolto da decenni di conflitti e distruzione. A Herat la disperazione è tale che i genitori non esitano a vendere le bambine come spose per non morire di fame. “Non lo farei mai”, s’indigna Amina sollevando il burqa e mostrandoci i suoi occhi scuri. Ha 35 anni e cinque figli avuti con un uomo più grande di lei di 45 anni, che chiama “il vecchio”. Non voleva sposarlo, ma i suoi genitori non le avevano dato scelta. “È malato, troppo anziano per lavorare”, perciò tocca a lei mantenere la famiglia facendo le pulizie. È seduta per terra fuori dagli uffici amministrativi della città, e insieme ad altre donne aspetta un passaggio per il campo. Dopo un giorno di attesa al gelo, rientrano portando con sé il minimo per sopravvivere, fornito dall’Alto commissariato per i rifugiati dell’Onu: coperte, secchi per andare a prendere l’acqua al fiume, una pentola, un fornelletto per cucinare. Amina è rimasta bloccata a Herat dopo essere stata respinta dall’Iran con i suoi familiari. Dei taliban non dice né bene né male. Vuole solo pace e sicurezza: “Alla fine ce le hanno portate, no?”. Il giorno prima un minibus è esploso nel quartiere sciita della città provocando sette morti, tra cui quattro donne, e nove feriti. ◆ gim

Da sapere
I colloqui di Oslo

◆ Dal 24 al 26 gennaio a Oslo, in Norvegia, una delegazione taliban e i rappresentanti di Stati Uniti, Norvegia, Regno Unito, Germania, Francia, Italia e Unione europea hanno discusso della crisi umanitaria in Afghanistan. I taliban hanno chiesto di scongelare i fondi afgani. Anche se il governo norvegese ha specificato che i colloqui non equivalgono al riconoscimento del regime, per i taliban è stato “un primo passo verso la legittimazione” del loro governo. Bbc


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Questo articolo è uscito sul numero 1445 di Internazionale, a pagina 30. Compra questo numero | Abbonati