Un monaco una volta mi ha detto che la rinuncia può essere un gesto grande se significa fare a meno di cose che ti fanno stare male. È questa prospettiva che manca quando parliamo della crisi climatica e di come dovremmo affrontarla. La riluttanza a fare quello che il cambiamento climatico impone deriva in gran parte dall’idea che agire vorrebbe dire scambiare l’abbondanza con l’austerità e le nostre cose e le comodità con meno cose e meno comodità. Ma se si trattasse di sbarazzarci di cose che ci fanno male come le emissioni mortali, la sensazione di avere il destino segnato e di essere complici della distruzione del pianeta? Se l’austerità fosse in realtà la condizione in cui viviamo adesso e l’abbondanza fosse invece quello che verrà?

Se prendiamo in considerazione parametri diversi dai beni materiali e i soldi, in realtà ci siamo impoveriti. Anche i ricchi vivono in un mondo in cui la fiducia nel futuro, nella società e nelle istituzioni sta svanendo. In cui il senso di sicurezza, la connessione sociale, la salute mentale e fisica e altri indicatori del grado di benessere sono a livelli bassissimi.

Bisogna cambiare prospettiva. Bisogna reinterpretare il cambiamento climatico come un’opportunità, un’occasione per ripensare chi siamo, per costruire società più forti

Questo è il mondo in cui viviamo con i combustibili fossili. Bruciandoli siamo diventati più poveri sotto molti punti di vista. Sappiamo che l’industria dei combustibili fossili corrompe la politica. Sappiamo che l’aria contaminata da queste fonti uccide più di otto milioni di persone all’anno e ne fa ammalare un numero molto più alto, soprattutto neonati e bambini. E sappiamo che, man mano che i combustibili fossili riempiono gli strati superiori dell’atmosfera con l’anidride carbonica destabilizzando la temperatura e il clima, la nostra ansia aumenta.

Tutto questo ha avuto un impatto forte sui giovani, giustamente arrabbiati e angosciati. Ma in realtà c’è un sentimento più ampio, un senso d’impotenza, se non di colpa, perché ci sentiamo complici di qualcosa di sbagliato. Sono danni morali, e molti di noi ne soffrono. Altri evitano di pensarci, e adottano una sorta di volontaria noncuranza. Questa condizione anestetizzata genera indolenza, invece la crisi richiederebbe un’azione specifica: una transizione veloce verso le rinnovabili, una migliore progettazione degli spazi urbani e una maggiore cura della natura.

La buona notizia è che la consapevolezza di non essere separati ma dipendenti dalla natura oggi è più forte rispetto a qualche decennio fa. Vedo ovunque persone che ripensano al loro modo di lavorare e di vivere, trasformando la consapevolezza in realtà. Vedo agricoltori che si preoccupano non solo delle colture e dei profitti ma anche della sostenibilità delle specie, dei corsi d’acqua e della natura che li circonda, che lavorano la terra per il raccolto di quest’anno ma anche per il benessere nel lungo periodo. Vedo una rinascita del potere delle comunità indigene nelle proteste sul clima, ma anche nelle discussioni sull’alimentazione, sul tempo e sui valori. Vedo persone che si battono per gli oceani, per le foreste e per l’intera biosfera. Bisogna partecipare a progetti di questo genere, difenderli ed estenderli.

Bisogna cambiare prospettiva. Bisogna reinterpretare il cambiamento climatico come un’opportunità, un’occasione per ripensare chi siamo.

Cosa succederebbe se indicassimo la “ricchezza” non con i soldi che custodiamo nelle banche o i beni derivati dai combustibili fossili, ma con la gioia, la bellezza, l’amicizia, la comunità, con la vicinanza a una natura prospera e cose da mangiare buone e prodotte senza sfruttare nessuno? Cosa succederebbe se pensassimo alla ricchezza come alla possibilità di vivere al sicuro, avendo fiducia nel futuro? A furia di dedicare tempo al lavoro, molti di noi si sono privati della capacità di perseguire la vera ricchezza. E se diventasse una priorità riappropriarci del nostro tempo; affannarci meno per accaparrare e spendere, e dedicarci invece ad attività creative, a costruire società più forti, a essere cittadini migliori?

Quando stavo facendo delle ricerche per Un paradiso all’inferno (Fandango 2009), un libro sul modo in cui le persone rispondono ai disastri, a colpirmi non fu tanto il coraggio o la capacità di costruire nuove reti sociali e mezzi per sopravvivere, ma il fatto che in queste situazioni si trova qualcosa che si vorrebbe con tanta forza da riuscire a provare gioia anche se intorno ci sono morte, rovina e disordine.

Per rispondere alla crisi climatica, un disastro più grande di qualsiasi cosa la nostra specie abbia mai dovuto affrontare, dobbiamo riportare a galla quello che le persone provano nei disastri: un senso di rilevanza, di connessione e generosità, la coscienza di essere vivi di fronte alle incertezze. Un senso di gioia. È questo il genere di ricchezza di cui abbiamo bisogno. È l’opposto del danno morale: è la bellezza morale. Qualcosa che non abbiamo bisogno di acquisire, perché è già dentro di noi. ◆ gim

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Questo articolo è uscito sul numero 1504 di Internazionale, a pagina 46. Compra questo numero | Abbonati