Il 9 gennaio Reynaldo Puma si trovava su una collina, nella regione meridionale di Puno. Pieno di paura e con il cuore che batteva all’impazzata, ha assistito al massacro di Juliaca, una delle località negli altopiani del Perù meridionale che si sono sollevate contro il governo della presidente Dina Boluarte. Lungo l’avenida Independencia, fuori dall’aeroporto Manco Cápac, Puma è stato testimone di una lotta impari: da una parte scudi, elmetti, granate e armi da fuoco; dall’altra bastoni, pietre e fionde. L’esito dello scontro era prevedibile.

Puma non ha avuto il coraggio di scendere più a valle. Quando ha cominciato a sentire le raffiche di proiettili, si è ricordato di un altro massacro avvenuto nello stesso luogo. A giugno del 2011 sei abitanti di Juliaca morirono nel tentativo di occupare l’aeroporto. Chiedevano giustizia per il fiume Ramis, contaminato dall’attività mineraria illegale. Puma ha capito subito che la situazione era ancora più pericolosa di allora e non si è sbagliato: il 9 gennaio la polizia peruviana ha ucciso diciassette manifestanti. Tre giorni dopo è morto anche un ragazzo di 15 anni per le ferite subite.

Puma è un giornalista e negli anni si è occupato spesso di criminalità organizzata. Si potrebbe quindi affermare che è esperto di eventi tragici e che il suo lavoro lo ha dotato di un’armatura di ferro. Ma il 9 gennaio ha pianto. Ha visto l’ospedale Carlos Monge Medrano trasformarsi in un ospedale da guerra e i feriti gravi trasportati a bordo di moto e scooter. A sconvolgerlo di più è stato un medico che è saltato su una barella per cercare di rianimare una persona, che però era morta. Orrore è la parola che ripete più spesso dall’altro capo del telefono: “Non è stato uno scontro”, dice il giornalista di Radio Pachamama.

Dei 52 feriti di San Román, una provincia che si affaccia sul lago Titicaca, tre sono ancora in terapia intensiva a causa delle ferite gravi. José Danilo Gutiérrez, 19 anni, è stato colpito alla schiena da un proiettile che ha raggiunto l’intestino crasso e il colon. La sua famiglia è la zia materna, Luz Enríquez. Come tutti gli altri parenti dei feriti in coma, anche lei può solo aspettare e si sente impotente. “Ci uccidono come se fossimo animali. Mi sento frustrata e arrabbiata. Non sappiamo quando José si riprenderà e quanto durerà la sua riabilitazione”, dice.

Non è una democrazia

Il giorno dopo le violenze della polizia contro i manifestanti di Juliaca, la città ha dimostrato di essere migliore delle sue autorità: l’associazione delle imprese funebri della provincia ha donato una bara a ciascuna delle vittime. Sempre il 10 gennaio il ministero dell’interno del Perù ha annunciato che a Juliaca un poliziotto era stato bruciato vivo dalla folla che protestava. Era il sottufficiale José Luis Soncco Quispe, 29 anni. Per la prima volta dal 7 dicembre 2022, quando il presidente Pedro Castillo è stato destituito dal parlamento e sono cominciate le manifestazioni contro la nuova presidente Dina Boluarte, la maggior parte dei mezzi d’informazione del paese ha smesso di raccontare le conseguenze laterali delle proteste – i milioni che vanno in fumo ogni giorno per i blocchi stradali, l’impatto sul turismo, la sospensione delle attività estrattive – e si è concentrata solo sui morti. Anzi, su uno in particolare. Il deputato Jorge Montoya ha proposto addirittura di dichiarare José Luis Soncco martire della polizia, morto per la difesa della democrazia.

Alcuni giornali hanno contattato i genitori dell’agente, due contadini della comunità di Qolliri, nella provincia di Canas. Tra i singhiozzi Eulogio Soncco, il padre, ha detto: “Per colpa di quella presidente noi peruviani ci stiamo uccidendo”. E le tv lo hanno oscurato alla velocità della luce. Durante il funerale, Soncco non ha escluso di riesumare il corpo per fare il test del dna e certificare che si tratti davvero di suo figlio, visto che il cadavere era irriconoscibile per i danni provocati dal fuoco. A metà della settimana la protesta si è estesa anche a Cusco. Il risultato è stato di trenta feriti e un morto. Remo Candia Guevara, presidente della comunità contadina Anansaya Urinsaya Ccollana di Anta, è stato colpito al petto. Al suo funerale, come nel caso dei morti di Juliaca, ha partecipato una folla enorme. Anche la squadra di calcio Cienciano del Cusco ha fatto pubblicamente le sue condoglianze alla famiglia. Per Josue Marocho, presidente dell’assemblea regionale dei giovani di Cusco, la morte di Candia non è una coincidenza. Secondo lui, l’uomo era un bersaglio delle forze di sicurezza: “Hanno sparato anche a un rappresentante della provincia di Paruro, ma non è morto. Lui e Candia erano dirigenti della nostra assemblea”, dice.

L’organizzazione guidata da Marocho è presente nelle tredici province della regione di Cusco e riunisce giovani tra i quindici e i ventinove anni. Marocho spiega che 25mila sono concentrati nella città di Cusco, dove fanno raccolta fondi e gestiscono mense comunitarie. “Non siamo vandali. Dall’inizio delle proteste le autorità hanno cercato di metterci in cattiva luce. Il Perù non è più una democrazia, questa parola è solo una copertura per giustificare gli omicidi”, dice. Secondo la Defensoría del pueblo (un organo previsto dalla costituzione che si occupa di tutelare la buona condotta dell’amministrazione nei confronti dei cittadini) da dicembre sono morte almeno 49 persone, di cui 41 a causa della repressione delle forze armate. Potrebbero essere di più: Rosalino Flores, uno studente di vent’anni, sta lottando tra la vita e la morte dopo essere stato colpito da decine di proiettili.

Uno di noi

La deputata di Cusco, Ruth Luque, ha presentato una denuncia penale e costituzionale contro Boluarte e due suoi ex ministri per la morte dei manifestanti. Luque sostiene che la strada verso l’unità e la pace non può essere lastricata di proiettili. “Le comunità contadine quechua e aymara, in modi diversi, sentono che il loro diritto alla vita, all’integrità, alla sicurezza è stato violato, come quello di aspirare alla verità e alla giustizia”, dice.

Luque sostiene una teoria condivisa anche da altri analisti: il malcontento nelle regioni meridionali del paese, guardate sempre dall’alto in basso dal governo di Lima, dipende dalla destituzione di un lea­der con cui molti abitanti s’identificavano. “Nel 2021 Cusco aveva votato per Castillo, maestro e contadino impegnato sul suo territorio. La gente del sud definisce Castillo ‘uno come noi’. Al di là delle colpe dell’ex presidente e dei suoi collaboratori corrotti, il suo allontanamento ha fatto sentire molti peruviani derubati della speranza”, aggiunge.

Il 13 gennaio Boluarte ha tenuto un discorso alla nazione in cui ha chiesto perdono per le vittime, ma allo stesso tempo ha minimizzato il malcontento. Poi ha chiarito che non vuole dimettersi: “Governerò per milioni di peruviani, non per un piccolo gruppo di estremisti che incendiano e distruggono il paese”. Intanto una delegazione della Commissione interamericana dei diritti umani è arrivata in Perù per valutare la situazione. Le prospettive non sono incoraggianti. I manifestanti continuano a organizzare proteste contro il governo e a chiedere elezioni anticipate: questa volta vogliono essere ascoltati a Lima. ◆fr

Da sapere
Stato d’emergenza

◆ Il 7 dicembre 2022 il presidente peruviano Pedro Castillo (del partito di sinistra Perú libre) ha annunciato lo scioglimento del parlamento e l’inizio di un governo di emergenza nazionale per riorganizzare il sistema giudiziario e scrivere una nuova costituzione. La mossa gli si è ritorta contro: il parlamento ha approvato la sua destituzione per incapacità morale, un meccanismo di impeachment che dovrebbe essere usato per rimuovere i presidenti affetti da disturbi psichiatrici. Castillo è stato arrestato mentre cercava di raggiungere l’ambasciata del Messico ed è stato portato alla prefettura di Lima. Sarà giudicato per i reati di sedizione e cospirazione. La vicepresidente Dina Boluarte ha assunto la guida del paese, ma da subito ha affrontato il malcontento di una parte della popolazione, che chiede le sue dimissioni, il rilascio di Castillo ed elezioni anticipate. Il 15 gennaio il governo ha decretato lo stato d’emergenza per un mese nella capitale e in altre tre regioni del sud. La misura autorizza l’esercito a intervenire per mantenere l’ordine. Da dicembre nelle proteste sono morte più di quaranta persone. Afp


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Questo articolo è uscito sul numero 1495 di Internazionale, a pagina 30. Compra questo numero | Abbonati