Dopo quindici mesi sotto i bombardamenti israeliani, il 27 gennaio centinaia di migliaia di abitanti del nord della Striscia di Gaza hanno cominciato a tornare a casa. La scena lungo la litoranea via Al Rashid richiamava l’immagine di una marea, con onde su onde di famiglie cariche dei loro averi. Questo storico ritorno avveniva mentre il presidente degli Stati Uniti Donald Trump proponeva il trasferimento permanente della popolazione di Gaza verso i paesi vicini, una soluzione che alcuni osservatori hanno definito pulizia etnica.

Il 25 gennaio Trump ha detto che trasferire i palestinesi di Gaza “verso regioni più sicure spianerebbe la strada a una pace duratura nella regione”. L’affermazione ha suscitato lo sdegno delle organizzazioni per i diritti umani palestinesi e internazionali. Diversi funzionari palestinesi l’hanno immediatamente condannata. “L’idea di sradicare un’intera popolazione non è una soluzione, ma una violazione del diritto internazionale”, sostiene Walid al Awad, un alto funzionario del Partito popolare palestinese. “Noi apparteniamo a questa terra, e nessuna potenza al mondo può recidere questo legame”. Rashid Khalidi, un abitante di Gaza, conferma: “Proposte come quella di Trump ignorano i profondi legami e i sacrifici che uniscono le persone alla loro casa. Questa è un simbolo di identità e resistenza”.

Assaggio di libertà

Anche nell’incertezza sul futuro dell’accordo per il cessate il fuoco, la resistenza della popolazione dà un po’ di speranza a una regione ferita dalla lunga e devastante guerra di Israele. Il ritorno degli sfollati palestinesi segue mesi di incertezza e disperazione, e avviene dopo che Hamas e Israele hanno raggiunto un accordo sul cessate il fuoco sostenuto da Qatar, Egitto e Stati Uniti.

Alle 7 del mattino le famiglie si sono riversate sulla via Al Rashid. Le donne tenevano in braccio i bambini e in equilibrio i bagagli, mentre gli uomini trainavano carretti carichi di valigie. L’assenza delle procedure d’ispezione israeliane ha reso per molti il momento surreale: un breve assaggio di libertà, mentre tornavano a dare vita ai luoghi che l’esercito israeliano aveva costretto ad abbandonare.

Il ritorno degli sfollati è stato reso possibile dall’accordo mediato da Qatar ed Egitto, in base al quale Hamas si è impegnato a liberare il 30 gennaio l’israeliana Arbel Yehuda, insieme ad altri due ostaggi, mentre il 1 febbraio è previsto il rilascio di altre tre persone. In cambio Israele ha aperto il passaggio verso nord.

Il momento è molto delicato dal punto di vista politico e umanitario: dopo mesi trascorsi nei ricoveri sovraffollati del sud della Striscia i palestinesi sono ridotti allo stremo fisicamente ed emotivamente. Per molti il ritorno a casa rappresenta una fragile speranza di ritrovare la normalità e la stabilità, mentre proseguono i negoziati per le prossime fasi del cessate il fuoco.

“Finalmente torno a casa”, si rallegra Arab Nidal Abu Odeh, abitante di Beit Hanun. “Temevo che sarei morto in un attacco aereo senza rivedere la mia città”. Pur sapendo che la sua casa è ridotta in macerie, è ancora ottimista: “Voglio vivere accanto alle rovine finché non la ricostruiranno”. Fatheia Abd Rabbo, di Shujaiya, è altrettanto determinata. Nonostante i dieci chilometri da percorrere a piedi per raggiungere la sua casa distrutta, afferma: “La mia nostalgia supera ogni fatica”.

Hamas ha schierato le sue forze di sicurezza per coordinare le procedure e assicurare che tutto vada liscio. L’esercito israeliano ha avvertito di non usare le strade per trasportare illegalmente armi, imponendo rigide ispezioni sui veicoli anche attraverso l’uso di tecnologie a raggi X.

Il 27 gennaio le strade principali, compreso il corridoio Netzarim, erano molto trafficate: auto, camion e carretti incolonnati, con a bordo le famiglie e le loro povere cose. Fonti di sicurezza palestinesi hanno riferito che l’esercito israeliano ha evacuato la parte occidentale del corridoio per facilitare il flusso. L’ufficio stampa del governo di Hamas ha sottolineato che il ritorno degli sfollati è un punto fondamentale dell’accordo con Israele, e ha insistito sull’importanza di garantire la loro sicurezza.

La strada costiera della città di Gaza si è riempita della gioia di centinaia di abitanti che aspettavano il ritorno dei loro cari dal sud. C’era un turbine di emozioni contrastanti: gioia, sollievo e paura per il futuro. Marwa Omar confida: “Da mesi attendiamo questo giorno. Nulla può descrivere come ci sentiamo ora. Speriamo che la tregua duri, prevalga la pace e la vita torni a com’era prima dell’ottobre 2023”. Tawfiq Radwan, 30 anni, è arrivato alla sua casa distrutta nella città di Gaza. Seduto tra le macerie, dice: “Non pensavo che sarei mai tornato nel quartiere in cui sono cresciuto. Invece sono qui. Ricostruirò la mia casa e un po’ alla volta torneremo alla vita che Israele ci ha rubato”. ◆ fdl

Sally Ibrahim è la corrispondente del New Arab dalla Striscia di Gaza.

Dal mondo arabo
Preoccupati e contrari

◆ La Giordania e l’Egitto si oppongono all’idea di accogliere gli abitanti della Striscia di Gaza fin dall’inizio dell’offensiva israeliana. Per questo la proposta del presidente statunitense Donald Trump di trasferire la popolazione palestinese nei paesi vicini ha suscitato allarme nel mondo arabo, soprattutto ad Amman e al Cairo. Il quotidiano giordano Al Ghad commenta che davanti alle pressioni del potente alleato statunitense, la diplomazia giordana può solo “chiudere gli occhi aspettando che passino quattro anni, perché Amman non può accogliere la richiesta, ma nemmeno permettersi un rifiuto”. L’unico aiuto potrebbe arrivare dall’Arabia Saudita, che “potrebbe sfruttare la sua influenza economica per negoziare con l’amministrazione statunitense”. Il sito Mada Masr ricorda che il presidente egiziano Abdel Fattah al Sisi teme che il trasferimento dei palestinesi trasformi il Sinai in una base per gli attacchi contro Israele.
◆ Il 28 gennaio 2025 l’ambasciatore israeliano alle Nazioni Unite ha annunciato che il suo paese ha vietato le attività dell’Agenzia dell’Onu per i rifugiati palestinesi (Unrwa) a partire dal 30 gennaio.


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Questo articolo è uscito sul numero 1599 di Internazionale, a pagina 22. Compra questo numero | Abbonati