È ora di colazione a Muggia, una cittadina italiana di confine. Alcune famiglie camminano verso il lungomare passando sotto gli archi della loggia rinascimentale. Una donna anziana entra con il suo cane maltese recalcitrante in una salumeria che espone in vetrina salsicce, tartufi e ajvar, una salsa piccante ai peperoni tipica dei Balcani. In questo comune di circa tredicimila abitanti nella penisola istriana, non lontano dal punto in cui l’Italia si dissolve nella Slovenia, i confini sono percepiti spesso come entità immaginarie.

Molti dei borghi costieri della penisola istriana – un pezzo di terra diviso tra Italia, Slovenia e Croazia – un tempo erano possedimenti della Repubblica di Venezia. Ancora oggi si distinguono architettonicamente per i loro campanili e per le finestre ad arco (molte delle quali decorate dalla vite rampicante) che si vedono in alcune case private di Muggia. Dalla caduta della repubblica veneziana nel 1797, la regione fu in gran parte sotto il dominio degli Asburgo d’Austria, che usarono la splendida Trieste, costruita in gran parte con la pietra calcarea, come base per le loro operazioni marittime. Nel novecento, la regione è stata variamente suddivisa tra l’Italia e la vecchia Jugoslavia. Per un breve periodo, dal 1947 al 1954, è stata autonoma sotto il nome di Territorio libero di Trieste, un’area che si estendeva dal comune di Duino, circa 15 chilometri a nordovest di Trieste, fino a Cittanova d’Istria, oggi Novigrad nell’attuale Croazia.

Ora due confini nazionali dividono la penisola. Ma per le persone che vivono e lavorano in questa regione dalla geografia fluida, la penisola istriana conserva ancora un carattere distinto e unitario. Per più di un decennio, fino a quando la pandemia di covid-19 ha bruscamente chiuso le frontiere di tutto il mondo, ho trascorso le mie estati a Trieste o nelle vicinanze.

In stile veneziano

Finalmente vaccinata e autorizzata a tornare, non vedevo l’ora di riscoprire i paesaggi della regione in modo nuovo: esplorando in bicicletta il perimetro di quello che un tempo era il Territorio libero di Trieste. Avevo programmato di percorrere circa 150 chilometri da Duino, in Italia, fino a Poreč (Parenzo), in Croazia, poco oltre il vecchio confine del Territorio libero: due città che, indipendentemente dalla loro nazionalità, mantengono un’identità fluida. La segnaletica è quasi sempre bilingue, in italiano e in sloveno o in croato.

Per gran parte del viaggio seguo la Parenzana, un percorso ciclabile ed escursionistico di 123 chilometri che, con una buona segnaletica, segue il tracciato della vecchia ferrovia austroungarica fra Trieste e Poreč. Per chi è poco incline all’atletica, il viaggio dura circa due ore: la regione è ottimamente servita dagli autobus regionali e internazionali. Il primo tratto del mio viaggio è da Duino a Trieste. Mi allontano dalla facile (e relativamente pianeggiante) strada costiera e mi dirigo verso l’interno, tra i paesi del Carso, preferendo ai panorami adriatici le strade di campagna, i sentieri tra i boschi e i terrazzamenti di vigne.

Seguo le indicazioni per le varie ozime, osterie locali che vendono vino, formaggi e salumi fatti in casa. A Prosecco, da cui prende il nome il celebre spumante (la parola deriva da un’espressione slovena che indica un sentiero nel bosco) mangio delle pesche al vino rosso. A Prepotto passo il pomeriggio a guardare un anziano accordare meticolosamente la sua chitarra, nonostante quel giorno non abbia mai suonato.

Ma è solo dopo Muggia, quando entro nella Parenzana vera e propria, che le caratteristiche del paesaggio diventano più evidenti. Pedalando in Slovenia, lungo una pista asfaltata nel bosco (dove c’è un’unica piccola indicazione), passo ripetutamente dalla costa alla macchia, con il sentiero che si snoda dai vari lungomare di località turistiche in stile veneziano, come Piran (Pirano), Izola (Isola) e Koper (Capodistria), fino alle stradine collinari dove si incontrano frazioni come Jagodje (Valleggia), i cui giardini sono popolati principalmente da galline e dove i venditori ambulanti offrono olio d’oliva locale e fichi freschi. Anche qui la geografia è fluida. In un’ora di pedalata il paesaggio passa dai lungomare alle foreste fitte di pini, e si passa dai resort all’italiana alle taverne balcaniche. A colazione prendo un caffè e un cornetto, ma a pranzo divoro un piatto di fagioli in un locale di Piran giustamente chiamato Sarajevo ’84: una piccola catena che propone piatti rétro dell’ex Jugoslavia, come ćevapčići e pane fresco bosniaco.

È molto strano attraversare tre stati nel giro di pochi giorni, dopo tanti mesi passati nello stesso paese e nella stessa città

In seguito supero le saline di Strunjan (Strugnano) e Sečovlje (Sicciole) in Slovenia, che in epoca veneziana erano una delle principali fonti di ricchezza e di commercio nella regione, e ora sono piene di moli per l’attracco d’imbarcazioni private. Poco dopo attraverso il confine con la Croazia.

Dopo qualche ora di bicicletta mi ritrovo nell’entroterra. I paesi sono così alti sopra i boschi che al mattino una coltre di nuvole oscura completamente la vista delle strade. Il mare, a meno di mezz’ora d’auto, non è più visibile. Gli spaghetti ai frutti di mare e i calamari fritti lasciano il posto alle specialità dell’interno, come il formaggio al tartufo e la biska, un liquore ricavato dal vischio.

A Grožnjan (Grisignana), una città veneziana del trecento frequentata negli anni sessanta da molti artisti, i piatti del menù sono pochi ma eccellenti. “Ha tre possibilità”, mi dice un efficiente cameriere del Mama Maria, un caffè in cima alla collina: “pršut (prosciutto), bistecca o formaggio”. Per il vino, però, la selezione è piuttosto ampia. Ordino un bicchiere di Malvasia locale che bevo al tramonto mentre in sottofondo c’è il suono disarmonico delle corde di un violino e poi gli accordi di un pianoforte: probabilmente sono gli studenti dell’International cultural centre of young musicians di Grožnjan che si preparano a provare al chiaro di luna. È molto strano attraversare tre stati nel giro di pochi giorni, dopo tanti mesi passati nello stesso paese e nella stessa città. L’arbitrarietà dei confini dà ancora più nell’occhio per via di quegli spazi interstiziali che non appartengono a nessun paese in particolare, come un museo delle saline situato in una lingua di terra che si protende nell’Adriatico, ufficialmente in Slovenia ma di fatto accessibile solo dalla terra di nessuno tra la dogana slovena e quella croata. È strano anche abituarsi ai continui cambi di lingua e di significati culturali, ai menù che offrono nella stessa pagina l’Aperol spritz e la pálinka, un distillato alla frutta.

Una costante di questa surreale settimana di frontiere aperte è la calorosa accoglienza che mi riservano quasi tutte le persone che incontro.

Una sola cultura

Quando sono già in cammino da qualche giorno, mi strappo un muscolo della schiena, così devo terminare il viaggio con una serie di corse in taxi. A Grožnjan, la premurosa proprietaria della pensione mi dà da mangiare torte fatte in casa e caffè turco, e mi cosparge di uno spray anti­reumatico noto come “acqua russa”. A Poreč, dove tento con eccessivo ottimismo di raggiungere una basilica del sesto secolo, un uomo che non ho mai incontrato prima mi dà un ombrello da usare come bastone per tornare al mio albergo, insistendo perché io lo prenda. Sempre a Poreč, un altro sconosciuto, un giovane croato di nome Dean, mi osserva e vuole portarmi direttamente al pronto soccorso. La sua sollecitudine tuttavia non gli impedisce di prendersi un momento per glorificare il carattere “trasversale” della penisola. “Da Grado in Italia”, spiega mentre guida, “a Poreč in Croazia, siamo una sola cultura. Tre paesi, ma una cultura”. Una cultura a cui, alla fine del mio viaggio, sono grata. ◆ nv

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Questo articolo è uscito sul numero 1436 di Internazionale, a pagina 80. Compra questo numero | Abbonati