Quando a ottobre Giorgia Meloni è stata nominata presidente del consiglio, Bruxelles e Berlino hanno scelto un atteggiamento conciliante: se gli aspiranti populisti di destra a Roma avessero seguito la strada di Mario Draghi su due questioni essenziali per l’Europa, loro avrebbero sorvolato sulle politiche nazionaliste e illiberali. I funzionari europei hanno elogiato subito Meloni, e dopo quattro mesi anche i diplomatici tedeschi le hanno reso omaggio. Le capitali europee definiscono pragmatica la tolleranza nei confronti del governo italiano, ma questa tattica non ha prodotto risultati. Ormai è innegabile: Roma non fa quanto le era stato chiesto. 

Non basta che Meloni mantenga la parola data a sostegno dell’Ucraina, visto che allo stesso tempo rischia di compromettere un programma senza precedenti per il futuro dell’Italia, finanziato dall’Unione europea. Roma ha accumulato gravi ritardi nell’attuazione del piano per la ripresa e la resilienza (Pnrr) da 191,5 miliardi di euro. L’Italia, che ha un debito pubblico alto, rischia di perdere un’occasione d’oro per superare la pluridecennale debolezza sul fronte della crescita economica. Ma l’aspetto più preoccupante è che dopo appena sei mesi il governo sembra aver rinunciato all’obiettivo, come se non valesse neanche la pena di provare o non cogliesse l’opportunità data dall’Unione europea per modernizzare il paese.

La corte dei conti

L’elefante è nella stanza ormai da molto tempo. Visto che a dicembre del 2022 l’Italia non aveva soddisfatto tutti i requisiti, dalla fine di febbraio di quest’anno la Commissione europea sta trattenendo la terza tranche da diciannove miliardi. Al governo sono state concesse due proroghe per recuperare, ma per ora non dà segno di voler rispettare la scadenza di fine aprile.

La responsabilità dell’Italia nei confronti di tutti gli europei è enorme, perché beneficia più di ogni altro paese del maggiore gesto di solidarietà della storia europea. Eppure sembra che non sappia cosa farsene di questo aiuto. Alla fine di marzo la corte dei conti ha lanciato l’allarme: è stato speso solo il 6 per cento dei fondi complessivi e metà dei fondi previsti per il 2022.

Il governo dà la colpa di questo disastro alla burocrazia, ma la verità è che ha sciolto l’efficiente squadra voluta da Draghi per affrontare la sfida del Pnrr. Prima ha licenziato le figure chiave, poi ha smantellato la struttura. La corte dei conti ha messo in guardia dal rischio di “rallentamenti nell’azione amministrativa proprio nel momento centrale della messa in opera d’investimenti e riforme”. Più che di un rischio, si tratta ormai di una certezza.

È rimasto inascoltato anche l’appello del presidente della repubblica Sergio Mattarella che, citando Alcide De Gasperi, ha detto: “È il momento per tutti di mettersi alla stanga”. Invece è successo il contrario. Più si sono fatte evidenti le difficoltà più è diventato spudorato il disinteresse della coalizione di destra. “I problemi che oggi nascono non sono figli delle scelte di questo governo”, ha detto Meloni, come se non avesse l’obbligo di rispettare il patto. Riccardo Molinari, capogruppo della Lega alla camera dei deputati, ha suggerito di rinunciare a parte dei prestiti: “Ha senso indebitarsi con l’Unione europea per fare cose che non servono?”. La Commissione europea è disposta a negoziare eventuali modifiche, ma per ora da Roma non sono arrivate proposte.

Per l’Europa e per l’Italia non poteva andare peggio. Prima Roma ottiene quello che ha sempre chiesto, la mutualizzazione dei debiti, e poi i populisti di destra si comportano come se non ci fosse bisogno di quei soldi. Danno ragione ai paesi nordeuropei che da sempre considerano rischioso dare più spazio di manovra all’Italia in materia di conti pubblici.

Quanto sta succedendo sembra mettere la parola fine al tentativo di aumentare l’integrazione europea e la credibilità dell’Italia. Rinunciando a parte dei fondi, Meloni rinuncerebbe alla crescita, ai posti di lavoro, all’aumento del gettito fiscale e quindi alla riduzione del debito pubblico. Provocando le reazioni negative dei mercati finanziari e la crescita dei tassi d’interesse su quei 2.700 miliardi di euro di debito. Resta un’unica speranza: che la presidente del consiglio non sia davvero così sprovveduta. ◆ sk

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Questo articolo è uscito sul numero 1508 di Internazionale, a pagina 32. Compra questo numero | Abbonati