14 agosto 2019 10:31

Un fantasma si aggira nei paesi ricchi. È lo spettro dell’ingovernabilità. “L’ingovernabilità in Italia è un grosso rischio”, affermava il suo ex primo ministro Matteo Renzi nel 2017. “Sarà impossibile governare la Spagna finché non risolveranno il problema politico in Catalogna”, presagiva il portavoce del governo regionale catalano a febbraio (appena prima della caduta del governo). Emmanuel Macron, per il quale governare significa riformare, avvertiva che “la Francia non è un paese riformabile”, evocando lo spirito del generale de Gaulle, il quale una volta si chiese come fosse possibile governare un paese con 246 tipi di formaggio.

Quando si osserva il paesaggio politico dei paesi ricchi, si nota una quantità insolita di caos e disordini. A Praga si sono svolte le più ampie manifestazioni dai tempi della caduta del comunismo. Più di un quarto degli attuali parlamenti in Europa è stato eletto nel corso di elezioni anticipate. Nel Regno Unito la madre di tutti i parlamenti si è trovata paralizzata, e i sondaggi di opinioni in tutti paesi mostrano che sempre più persone sono stufe delle sottigliezze democratiche e bramano un uomo forte.

Ma non sono le manifestazioni di protesta e i governi deboli a rendere un paese ingovernabile. Inoltre, come potrebbe aver scritto Tolstoj, ogni paese ingovernabile lo è a modo suo. I problemi dell’Italia, della Spagna e del Regno Unito sono tutti diversi tra loro. E quindi cosa significa, ammesso che significhi qualcosa, l’ingovernabilità applicata alle democrazie? E se è un problema, è peggiore oggi di quanto fosse nel recente passato?

Si può pensare all’ingovernabilità riferendosi a quattro elementi di difficoltà, che a volte possono essere comuni a più di un paese o essere contemporaneamente presenti in un unico paese.

Formare un governo

In primo luogo, alcuni paesi non riescono a formare un governo stabile perché (nei sistemi con sistema maggioritario a turno unico) il partito più forte non è in grado di guidare una maggioranza in parlamento oppure perché (nei paesi dove si formano delle coalizioni) i partiti non riescono a organizzare un’alleanza stabile sulla base dei risultati elettorali. La Spagna ha avuto tre elezioni dalla fine del 2015 e potrebbe tornare a votare, visto il fallimento nei negoziati per formare una nuova coalizione. Nel Regno Unito, le elezioni del 2017 hanno tolto al Partito conservatore al potere la sua maggioranza e il periodo trascorso successivamente al governo è stato tumultuoso. In entrambi i paesi, stabili sistemi bipartito hanno ceduto il campo a traballanti sistemi a quattro o cinque partiti (ed entrambi, incidentalmente, hanno assistito al crollo d’importanti governi regionali, in Catalogna e in Irlanda del Nord).

Nei 28 paesi dell’Unione europea, otto delle ultime elezioni legislative sono state convocate prima della fine prevista della legislatura. Non si tratta di un dato trascurabile, ma non suggerisce neppure un caos generalizzato.

Fatto più comune, i paesi con governi di coalizione hanno dovuto fare i conti con negoziati insolitamente lunghi. In Svezia sono durati quattro mesi e si sono conclusi nel gennaio 2019: il paese oggi ha un inefficiente governo di minoranza. La Finlandia ha organizzato delle elezioni lo scorso aprile e ha dovuto attendere la fine di maggio per la formazione di una coalizione tra destra e sinistra. Questi casi impallidiscono di fronte agli otto mesi necessari a creare un governo in Repubblica Ceca nel 2018, per non parlare del record di 535 giorni trascorsi in Belgio senza un governo tra il 2010 e il 2011. Dopo le sue elezioni del 2018, l’Italia è riuscita a mettere insieme una coalizione tra la destra populista e la sinistra populista, anche se le due formazioni non si sopportano a vicenda. Questi paesi dovrebbero probabilmente essere definiti precari, più che ingovernabili.

Approvare le leggi

Ingovernabilità può inoltre significare che i governi non riescono ad approvare leggi fondamentali, da cui dipendono le attività dello stato. La Spagna quest’anno non è riuscita ad approvare una legge di bilancio, il che ha portato alle elezioni di aprile. L’Italia è riuscita ad approvare il suo bilancio per il 2019, ma sforando i limiti finanziari imposti dall’Ue, anche se finora è stato evitato uno scontro.

Il Regno Unito ha conosciuto un fallimento senza precedenti: una sconfitta ripetutasi tre volte, con enormi margini, nella camera dei comuni, sull’argomento più importante del giorno, la Brexit. Se questo fosse successo in qualsiasi altro momento, il governo si sarebbe dimesso, accelerando i tempi di una nuova elezione. Invece queste sconfitte hanno scatenato una corsa al timone del Partito conservatore, che ha prodotto un governo che si aspetta di uscire dall’Ue senza un accordo ma che deve fare i conti con un parlamento determinato a evitare che una cosa del genere accada. Si tratta di una straordinaria evoluzione degli eventi, in un sistema che in teoria non dovrebbe permettere divisioni all’interno del governo. La prospettiva che il Regno Unito scivoli o meno verso l’ingovernabilità dipenderà dalla sua eventuale uscita dall’Ue senza accordo e da quel che può succedere nel corso delle attese elezioni anticipate. Al momento, con una maggioranza di uno o due seggi, il governo va avanti per inerzia.

Ma sono gli Stati Uniti il paese che per eccellenza è incapace di approvare leggi: sia repubblicani sia democratici, infatti, hanno rinunciato a legiferare fino a dopo le elezioni presidenziali del 2020. Questa decisione conferma un’incapacità di lunga data, come accaduto con i blocchi delle attività amministrative (shutdown) dovuti alla mancata approvazione della legge di bilancio. Tra il 2016 e il 2018 i repubblicani controllavano entrambi i rami del congresso ma non hanno raggiunto il loro principale obiettivo legislativo, abrogare l’Affordable care act (il cosiddetto Obamacare) e non hanno provato a ottenere l’approvazione di un accordo per migliorare le fatiscenti infrastrutture statunitensi, come invece era stato promesso. Gli Stati Uniti non sono ingovernabili, in molti sensi del termine, ma il suo parlamento e il suo esecutivo sono preda di una paralisi.

Applicare la costituzione

Un terzo aspetto dell’ingovernabilità è la sistematica distorsione delle norme costituzionali, che rendono i processi politici confusi o arbitrari. Questo non rende sempre i paesi ingovernabili. A volte, come accaduto di recente in Ungheria, per esempio, accade il contrario, con l’aumento del potere dello stato a danno dei sistemi di pesi e contrappesi democratici. Ma l’indebolimento delle norme può indebolire il processo decisionale, come nel Regno Unito. Qui la responsabilità del governo e la disciplina di partito sono andate in fumo, i ministri hanno violato i loro codici di condotta e le tradizionali procedure parlamentari – come l’organizzazione di un discorso della regina nel quale delineare le proposte legislative – sono ignorate.

La situazione negli Stati Uniti non è così drammatica. Ma il presidente Donald Trump ha sospeso le attività del governo federale due volte in un anno, mentre Obama l’aveva fatto solo una volta in otto anni. Il secondo shutdown di Trump, tra il 2018 e il 2019, è stato il più lungo della storia. Trump ha sfidato il congresso a proposito di una legge fiscale e intimato alla sua amministrazione di resistere alle richieste d’informazione del parlamento. L’ex ambasciatore britannico a Washington ha definito l’amministrazione disfunzionale, imprevedibile, preda di lotte intestine, diplomaticamente maldestra e inetta. E questo è lo sguardo degli amici degli Stati Uniti. Il sistema politico statunitense non è concepito per funzionare in maniera fluida. Ma sta diventando disfunzionale a livelli mai immaginati dai suoi padri fondatori.

I paesi occidentali non sono ingovernabili nel senso che sono paralizzati da crisi o rivolte. Non hanno perso il controllo delle proprie strade. E non sono in ostaggio di milizie armate. Ma i loro governi sono in balìa di lotte interne e sono troppo deboli per approvare grandi riforme come, per esempio, quelle delle pensioni o dell’assistenza sociale. Non è impossibile governarli perché sono caotici o anarchici ma perché molti di loro hanno governi incapaci di fare alcunché d’importante.

Rispetto agli anni settanta le società sono meno disordinate ma la politica lo è di più

Negli ultimi anni c’è stato un ritorno delle manifestazioni di massa. In Francia i gilet jaunes (gilet gialli), un movimento di base populista, hanno bloccato le strade e organizzato alcune delle proteste più violente viste nel paese dal 1968. Nel Regno Unito i contrari alla Brexit hanno sostenuto che un milione di persone hanno partecipato alla manifestazione di Londra del marzo 2019, il che ne farebbe una delle più numerose della storia del paese. Praga ha ospitato le più grandi proteste dai tempi della rivoluzione di velluto del 1989. E manifestazioni contro il governo di dimensioni più piccole si sono svolte in Spagna, in Serbia, in Ungheria e in Slovacchia tra il 2018 e il 2019.

La natura di queste manifestazioni, tuttavia, ci ricorda che cosa non è l’ingovernabilità odierna. Non è una guerra fra bande. Nessuno sta bruciando il palazzo presidenziale o impiccando il re. Le proteste nelle capitali occidentali sono state perlopiù pacifiche rispetto agli anni sessanta e settanta. Durante i disordini esplosi dopo l’omicidio di Martin Luther King nel 1968, sui gradini del Campidoglio furono disposte delle mitragliatrici.

Questo elemento di confronto suggerisce una curiosa caratteristica della politica contemporanea, che rovescia l’esperienza degli anni settanta. Allora l’inflazione era in netta ascesa, la disoccupazione elevata e gli scioperi frequenti. C’erano rivolte e omicidi e, negli Stati Uniti, la leva obbligatoria portava le persone a combattere in una guerra impopolare. Eppure, a parte eccezioni come lo scandalo Watergate, l’attività di governo andò avanti senza intoppi. Un paio d’anni dopo i disordini del 1968, Richard Nixon istituì l’Agenzia di protezione dell’ambiente, e de Gaulle vinse le elezioni legislative subito dopo il maggio parigino. Paul Keating, che sarebbe diventato in seguito primo ministro australiano, ha detto del suo governo negli anni ottanta che “il cane può abbaiare, ma la carovana va avanti” (ed effettivamente il governò andò avanti, nonostante le voci critiche).

Oggi la situazione appare rovesciata. L’inflazione è domata, la disoccupazione è bassa e i salari in leggera crescita. Ma i governi sono allo stallo. Rispetto agli anni settanta le società sono meno disordinate ma la politica lo è di più. Forse questa situazione non durerà a lungo. Forse i politici stanno semplicemente facendo i conti con un momentanea serie di circostanze che ne determinano l’impopolarità. Gli elettori non gli riconoscono meriti per la ripresa economica e sono arrabbiati per il costo dell’austerità. Se così fosse, i governi potrebbero prima o poi essere ricompensati alle urne e la normale attività di governo riprenderà.

La fine dei partiti

Ma i fenomeni di lungo periodo sembrano ostacolare una simile possibilità, in particolare il secolare declino dei grandi partiti politici, che in Europa è più pronunciato che altrove. Al loro apogeo, i due principali partiti nel Regno Unito, in Spagna e in Germania ottenevano tra l’80 e il 90 per cento dei voti. Oggi sono ridotti ai due terzi del totale, o anche meno.

Nel 1960, il 15 per cento degli elettorati in Europa occidentale era iscritto a un partito. Oggi questa quota è inferiore al 5 per cento. I due grandi partiti britannici un tempo erano le maggiori organizzazioni civili del paese. Oggi i loro aderenti messi insieme sono meno degli iscritti alla Società reale per la protezione degli uccelli. L’adesione a sindacati e chiese è crollata, marginalizzando le istituzioni che facevano da rinforzo sia del centrosinistra sia del centrodestra. E, se si escludono gli Stati Uniti, gli elettori sono più volubili. Alessandro Chiaramonte dell’università di Firenze e Vincenzo Emanuele dell’università Luiss di Roma hanno rilevato che l’8 per cento degli elettori europei ha cambiato il proprio voto alle elezioni nazionali tra il 1946 e il 1968. Tra il 1969 e il 1991 la percentuale è salita al 9 per cento. Tra il 1992 e il 2015 a cambiare idea è stato il 13 per cento.

Dovunque i partiti fanno fatica a reclutare e trattenere iscritti e a mobilitare gli elettori. Eppure, sono i partiti la forza organizzatrice della democrazia parlamentare. Scelgono i candidati, approvano i programmi e partecipano al voto. Le coalizioni solitamente ruotano intorno a un grande partito. Se i partiti continuano a declinare, è probabile che i sistemi politici diventeranno quantomeno più fluidi, e nel peggiore dei casi difficili da governare.

(Traduzione di Federico Ferrone)

Questo articolo è uscito sul settimanale britannico The Economist.

Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it