21 dicembre 2021 14:47

Quando uno pensa alla scuola nei paesi nordici, ha subito davanti scene di bambine e bambini che giocano tra gli alberi e sotto la pioggia, con stivali e impermeabili colorati. Immagina aule piene di costruzioni, spazi di ogni tipo convertiti in laboratori. E probabilmente finirebbe per parlare del famoso modello finlandese. Come hanno fatto diversi giornali europei, che nelle ultime settimane hanno citato la Finlandia come esempio pedagogico da seguire.

Le Monde l’ha nominata per descrivere Kiva, un programma contro il ciberbullismo creato nel 2006 da un’università finlandese e usato da ventuno stati in tutto il mondo. Il País, nella sua newsletter dedicata alla scuola, l’ha chiamata in causa ragionando sulla spesa delle famiglie per l’istruzione: nel 2018 in Spagna corrispondeva allo 0,84 per cento del pil, la seconda spesa più alta dell’Unione Europea, dietro solo ai Paesi Bassi, stando ai dati dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse). All’altra estremità, nota il quotidiano spagnolo, c’era la Finlandia, con lo 0,09 per cento. Sempre il País il 29 novembre ha dedicato un articolo alla lungimiranza dei finlandesi sull’alfabetizzazione digitale. In una scuola di Helsinki alunni di dieci anni costruiscono robot nei corridoi, “creano liste di cose da fare online, su qualunque piattaforma vogliano, e decidono liberamente su cosa lavorare”, racconta Marien Kadner. Duecento chilometri più a nord, in un’altra scuola pubblica frequentata ogni giorno da mille studenti delle superiori, in classe i computer hanno rimpiazzato i libri di testo. Ognuno ha il suo dispositivo, pagato dallo stato.

Il modello finlandese, però, ha suscitato anche critiche. David James, vicepreside di una scuola privata di Londra, lo ha attaccato duramente in un testo uscito sul mensile britannico The Critic a maggio del 2021. “Ci sono molti idealisti dell’istruzione che sognano una terra in cui bambini possono essere veramente ‘creativi’, liberi dai vincoli di discipline antiquate, da tutti quei rapporti ‘dannosi’ che cercano di dare un voto alle capacità e le uccidono sul nascere”, scrive. “Queste persone immaginano un posto dove l’apprendimento è il più possibile collaborativo, l’orario è ridotto, le regole sono concordate con gli studenti, la responsabilità abolita e i compiti a casa vietati”. Per loro la terra promessa è la Finlandia: provate a digitare “Finlandia” e “scuole” in un motore di ricerca, suggerisce provocatoriamente James, e vi appariranno un’infinità di articoli entusiastici. Come ha fatto un paese relativamente piccolo, nel gelido nord, ad avere questa fama?

Il merito, o la colpa, è del Programma per la valutazione internazionale dell’allievo (Pisa): nel 2001, quando uscì il primo rapporto del progetto, la Finlandia era in cima alla classifica. E anche se nel 2013 è passata da A* a C-, e nell’ultimo rapporto del 2018 è peggiorata ulteriormente, in tanti continuano a celebrarne il mito. Dietro questa idealizzazione, secondo James, c’è Pasi Sahlberg, che nel suo ultimo libro, In teachers we trust (confidiamo nei maestri), riafferma la convinzione che qualsiasi politica educativa nazionale sia difettosa, perché impedisce agli insegnanti e agli studenti di realizzare il loro potenziale. Sahlberg sostiene che per cambiare la scuola dovremmo affidarci meno alle riforme guidate dalla politica e più alle idee di successo che hanno funzionato in vari contesti.

È una formula applicabile anche a sistemi scolastici più grandi, più complessi e diversificati? Secondo James no, e per dimostrarlo fa l’esempio della Scozia. Nel 2010 la Scozia si è ispirata alla Finlandia per il suo Curriculum for excellence (Cfe), che stabilisce programmi e contenuti per tutti i livelli scolastici, dall’asilo alle secondarie. Lo scopo era promuovere un apprendimento centrato sul bambino e mettere le “esperienze” al centro del percorso di crescita. Nel 2009 gli adolescenti scozzesi erano molto più avanti dei loro coetanei inglesi in matematica e scienze, ma nel 2018 erano rimasti notevolmente indietro, osserva James.

La Svezia vista dalla Danimarca
“Al Christiansborg di Copenaghen come al Riksdagshuset di Stoccolma, le verifiche e i voti dati a scuola sono all’ordine del giorno”, scrive Tine Eiby sul settimanale danese Weekendavisen. Nei due parlamenti si discute da mesi di come cambiare il modo di valutare gli studenti, e il confronto andrà avanti per un po’. In ogni caso, riflette la giornalista, è incredibile come due paesi così vicini abbiano sistemi educativi tanto lontani.

“Sulla sponda svedese dell’Øresund (lo stretto che divide i due stati) trovate una scuola tollerante, centrata su un’idea di valutazione che segue il progresso dell’alunno. Niente prove di maturità o verifiche orali snervanti. Nessun esaminatore esterno. Una scuola per tutti, dall’asilo al liceo. Anche per chi non pensa di iscriversi all’università ma vuole concentrarsi su materie più pratiche. Sulla sponda danese, invece, le primarie e le secondarie, distinte tra licei (ginnasi) e istituti professionali, costituiscono tre mondi separati, ognuno con il suo insieme di valori. Gli studenti sono sistemati su piani o ‘scaffali’ diversi. A questo servono gli esami e i valutatori esterni, già alla fine della scuola primaria”. In Svezia qualcuno ha proposto di abolire del tutto i voti negativi, perché avere ragazzi e ragazze che rimangono indietro e si perdono è un costo troppo alto per la società; in Danimarca si usa una scala di giudizi che comprende più di un voto negativo, uno addirittura con il meno davanti.

Per capire questa distanza, dice Eiby, bisogna guardare al passato. Gli svedesi eliminarono la prova finale alle superiori e gli esaminatori esterni nel 1968: da allora conta il giudizio degli insegnanti, e agli studenti basta ottenere un certo voto per dimostrare di aver completato il ciclo scolastico. L’artefice di quel cambiamento era Olof Palme, che prima di guidare il governo e i socialdemocratici svedesi, e prima di essere assassinato nel 1986, fu ministro dell’istruzione. “Palme aveva molte idee radicali su come liberarsi del vecchio e pensare in modo nuovo”, spiega Christian Lundahl, che insegna scienze dell’educazione all’università di Örebro, in Svezia. “L’istruzione secondaria era legata a un sistema classista e a una cultura antiquata. Quindi, per modernizzare la scuola, bisognava superare quella cultura”. Il concetto di en skola för alla, una scuola e un curriculum comuni per tutti gli studenti, esisteva già da qualche anno, ma da Palme in poi quest’idea fu portata avanti in un modo – dal punto di vista danese – piuttosto radicale: nel 1970 l’istruzione secondaria fu riunita in un unico sistema, diventando molto più accessibile. E un’altra riforma nel 1994 ha reso più facile per chiunque, anche per chi esce da un istituto professionale, accedere all’università.

I mondi separati dell’istruzione danese invece risalgono all’ottocento, ai tempi di Nicolai Grundtvig e Johannes Madvig. Il primo, religioso e filosofo, teorizzava una scuola primaria per tutte le classi sociali, che unisse la teoria e la pratica: una scuola capace di “preparare gli alunni per la vita”. Il secondo, filologo e poi ministro, pose le basi per una secondaria fondata sullo studio del latino e della storia, oltre che sulla scienza. Questi due modelli hanno continuato a convivere, impedendo alla Danimarca di avere un sistema scolastico coerente.

Negli anni sia il sistema svedese sia quello danese hanno mostrato i loro limiti. Se la quasi totalità dei ragazzi e delle ragazze in Svezia decide di continuare a studiare dopo i sedici anni, cioè dopo la scuola dell’obbligo, facendo altri tre anni di superiori, uno su tre ci mette più del previsto o abbandona. Si può anche discutere fino a che punto la scuola svedese sia davvero uguale per tutti visto il dilagare di istituti privati, che in alcune zone dominano l’offerta educativa, mentre i quartieri più svantaggiati si appoggiano su enormi strutture pubbliche, con programmi più generici. Dall’altro lato dell’Øresund il 75 per cento dei giovani danesi sceglie di continuare a studiare dopo la scuola dell’obbligo: al liceo alcuni si perdono per strada, anche se meno dei loro coetanei svedesi; negli istituti professionali invece il tasso di abbandono è vicino al 50 per cento.

Per migliorare le cose, sia Stoccolma sia Copenaghen stanno puntando sui voti. Gli svedesi vogliono rivedere un sistema troppo permissivo, che riflette poco le reali capacità degli studenti e favorisce una sorta di svendita. Il piano è dare più importanza al voto di fine anno e ai risultati nei test nazionali. I danesi hanno appena deciso di anticipare i test all’inizio dell’anno, per renderli uno strumento che aiuti gli insegnanti a sviluppare i programmi. E stanno ragionando su come cambiare i criteri di valutazione per allentare un po’ la pressione sugli alunni. Svezia e Danimarca saranno anche separate da uno stretto, ma c’è pur sempre un ponte che le collega, conclude Eiby.

La Danimarca vista dalla Norvegia
Da un paio di anni Ikast, una cittadina di 23mila abitanti a un’ora da Århus, ospita una nuova scuola privata, la Guldminen. Oltre a essere costosissima, questa scuola ha anche un’altra particolarità: è gestita dal Football Club Midtjylland, una delle più forti squadre di calcio della Danimarca. L’obiettivo è allevare dei super atleti. il futuro vincitore del pallone d’oro, la migliore giocatrice di pallamano, e magari anche la futura prima ministra.

La scuola conta novanta iscritti, organizzati in sette classi, dai sei ai tredici anni. Sono previsti due allenamenti al giorno, ma per il resto la Guldminen segue il programma delle altre scuole del paese, anche se applica metodi pedagogici sperimentali. Il requisito per essere ammessi è essere eccezionalmente bravi nello sport, soprattutto nei giochi con la palla, oltre ad avere una famiglia disposta a pagare l’equivalente di circa cinquecento euro al mese di retta. “È come se qui in Norvegia il Rosenborg o il Bodø/Glimt aprisse una sua scuola elementare”, riflette Margrethe Zacho Haarde sul quotidiano Dagens Næringsliv. “Sarebbe impensabile”.

Su una parete della mensa della Guldminen si nota subito una scritta a grandi lettere rosa: “Tu dici che sogno troppo in grande, io dico che pensi troppo in piccolo”. Bjørn Holm, direttore sportivo della scuola, spiega che lo scopo è insegnare agli alunni ad avere un buon controllo del loro corpo il più presto possibile. “Ci sono bambini e bambine a cui piacciono le sfide e che non si arrendono facilmente”. Il fattore decisivo non è tanto il talento, aggiunge, ma l’ambiente. “Lavoriamo costantemente perché il singolo bambino sia il migliore”. E se qualcuno non riesce a migliorare? “Nessuno viene buttato fuori dalla scuola, ma penso che un bambino che non sta fisicamente al passo finirà per fare pochi progressi”, conclude Holm. I tanti perplessi verso questo modo d’intendere l’apprendimento lo riassumono così: se si vogliono dei vincenti, servono anche dei perdenti.

In Danimarca più del 18 per cento dei bambini frequenta una scuola primaria privata, che può anche prevedere dei criteri di ammissione, per esempio un test del quoziente intellettivo. In Norvegia gli istituti privati sono passati negli ultimi dieci anni da 165 a 267, coinvolgendo il nove per cento degli alunni totali. Lo stato può sostenere finanziariamente queste scuole se rientrano in un indirizzo pedagogico riconosciuto, o se incentivano la crescita in un campo particolare (come la scienza o l’arte). In ogni caso, non sono ammessi requisiti di accesso.

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