22 novembre 2016 14:29

Quando ha fatto le prime autopsie sui corpi dei migranti morti nel naufragio del 18 aprile del 2015, Cristina Cattaneo ha cominciato anche a fare incubi. “Sognavo che i migranti fossero impiccati sul barcone, sognavo di cercare per la strada dei segni che mi aiutassero a identificarli, a capire chi fossero”, racconta Cattaneo, mentre è seduta dietro a montagne di libri e faldoni nel suo studio all’Istituto di medicina legale dell’università statale di Milano.

“Sui primi corpi abbiamo lavorato di continuo giorno e notte, per tre giorni, abbiamo fatto tutto sul pavimento dell’ospedale di Catania e dovevamo fare in fretta perché l’ospedale non era attrezzato a ricevere così tanti cadaveri”. Cattaneo è un medico legale, un’antropologa forense e dirige il laboratorio di antropologia e odontologia forense (Labanof) dell’Istituto di medicina legale dell’università statale di Milano a cui è stato affidato il compito di guidare il gruppo di medici e antropologi che ha fatto la repertazione cadaverica dei 728 corpi recuperati nella stiva del peschereccio affondato nella notte del 18 aprile del 2015, in quella che è considerata la peggiore tragedia della storia recente nel Mediterraneo.

“Ricorderò sempre le autopsie che abbiamo fatto sui primi 13 corpi. Anche se siamo abituati a lavorare sui disastri di massa, era la prima volta che facevamo un’autopsia sul cadavere di un migrante morto in mare”, racconta. Il primo sacco nero aveva dentro il corpo di un ragazzo, probabilmente eritreo. “Quello che mi ha colpito di più è che aveva cucito all’interno del maglione un piccolo sacchetto”, racconta Cattaneo mentre si sposta un riccio biondo dalla fronte e fa una pausa per prendere fiato.

Ogni oggetto, una storia
“Io sono abituata a fare autopsie per i tribunali e ho pensato subito che si trattasse di droga o di qualcosa di prezioso. E invece era un sacchetto di plastica con dentro una manciata di terra”, spiega. “Il poliziotto della scientifica che era lì con noi durante le autopsie ci ha detto che avviene spesso di trovare questi sacchetti di terra cuciti nei vestiti delle persone che arrivano in Italia, dopo la traversata del Mediterraneo. Si portano dietro la loro terra, anche io lo farei in fondo”, afferma Cattaneo, mentre mi fissa sicura e stanca dopo un’interminabile giornata di lavoro.

Sono gli oggetti recuperati dalle tasche, i vestiti, i foglietti di carta nascosti a parlare delle vite di queste persone, delle loro speranze, del loro passato e di quello che pensavano di costruire: “Ci sono portafogli pieni di fotografie. Facce di madri, di mogli, di figli. Ci sono liste di numeri di telefono, biglietti, lettere, profili Facebook da contattare. Ci sono pagelle scolastiche, tessere universitarie, passaporti. Ci sono scatole con delle medicine, magliette di squadre di calcio europee, anelli, telefoni, ricordi”, racconta la dottoressa.

Dai dati raccolti nella prima fase di studio dei cadaveri recuperati dal barcone affondato e riportato a terra dagli abissi marini nel giugno del 2016, emerge che la maggioranza delle vittime del naufragio del 18 aprile è costituita da ragazzi, tutti maschi, tutti giovani. Mali, Senegal, Guinea, Costa d’Avorio, Gambia, Eritrea, Etiopia, Somalia e Bangladesh sono i principali paesi di origine delle vittime. “Due terzi dei corpi appartenevano a ragazzi di un’età compresa tra i 20 e i 30 anni, mentre un terzo avevano tra i 15 e i 17 anni”, conferma Cattaneo.

Dopo il recupero del barcone, a ottobre si è conclusa la prima fase di raccolta di dati delle vittime del naufragio nel laboratorio allestito nella base Nato di Melilli, in Sicilia. Ora tutti i dati devono essere studiati e archiviati dal laboratorio di Milano, in attesa di essere consultati dalle famiglie delle vittime.

È soprattutto per chi rimane, per i vivi, che dobbiamo identificare i morti

Insieme all’ufficio del commissario straordinario per le persone scomparse, Vittorio Piscitelli, che ha coordinato l’intera operazione, il Labanof di Milano si occuperà della seconda fase, quella più delicata di reperimento dei dati ante mortem, da confrontare con quelli post mortem minuziosamente raccolti dai medici legali e dagli antropologi provenienti da diversi atenei italiani che hanno lavorato nel laboratorio allestito a Melilli.

L’obiettivo di questo lungo processo è l’identificazione delle persone morte in mare. “L’identificazione ci serve soprattutto per i vivi, per le famiglie delle persone morte, per quelli che restano e che nella maggior parte dei casi non hanno la possibilità neppure di avere un certificato di morte del loro congiunto, con tutte le conseguenze legali che questo comporta per le famiglie. Ci sono vedove che non possono risposarsi, ricongiungimenti familiari che non possono avvenire, eredità che non possono essere trasmesse proprio a causa della mancanza di questo certificato. È soprattutto per chi rimane, per i vivi, che dobbiamo identificare i morti”, spiega Cattaneo, in risposta a tutte le polemiche sui costi dell’operazione, scoppiate all’indomani del recupero dell’imbarcazione affondata al largo della Libia.

A chi chiede a cosa serva questo lavoro di identificazione, Cattaneo risponde con i fatti. Nel caso dei naufragi di Lampedusa del 2013 il 50 per cento delle vittime è stato identificato. Le famiglie di 66 scomparsi si sono presentate a Roma e Milano per la raccolta dei dati ante mortem; una dozzina ha scoperto che i parenti non erano tra le persone decedute.

Diritti annegati
Siamo di fronte alla più grande tragedia dei nostri tempi: migliaia di persone muoiono in mare nel tentativo di raggiungere l’Europa, la maggior parte di loro rimane senza nome e diventa un fantasma per le famiglie che non ne conoscono la sorte. Secondo alcune stime dell’Organizzazione mondiale per le migrazioni, sono 40mila i migranti morti nel Mediterraneo dal 2000 e il 65 per cento di loro non ha nessuna identità.

“È scandaloso pensare quale diversità di trattamento riserviamo a questi morti, rispetto ai morti di qualsiasi disastro aereo avvenuto in Europa o nel mondo sviluppato. Quello del 18 aprile 2015 è il caso più eclatante di una vicenda che si ripete ciclicamente, fatta di episodi più piccoli e più invisibili che sono trattati con un’indifferenza che deve farci interrogare”, afferma Cattaneo. “Arriviamo a dire che è inutile identificare i morti, che le famiglie non li reclamano, ma questo non è vero. Le famiglie non sono informate e spesso non possono denunciarne la scomparsa, non sanno a chi rivolgersi. Il risultato è che i nostri cimiteri sono pieni di morti senza nome e altrettanti giacciono nel fondo del mare”, continua.

Uno dei problemi più grossi è l’adozione di un protocollo comune su tutto il territorio nazionale

L’esperienza di identificazione dei morti recuperati nel Mediterraneo è cominciata in Italia con il naufragio del 3 ottobre del 2013, quando davanti all’isola di Lampedusa morirono 366 persone, quasi tutte di origine eritrea. All’epoca il commissario straordinario per le persone scomparse, Vittorio Piscitelli, sperimentò insieme al laboratorio Labanof di Milano, per la prima volta in Italia e in Europa, un protocollo per l’identificazione delle vittime di un naufragio.

“In quell’esperienza comprendemmo le difficoltà burocratiche e le lacune normative legate a questo fenomeno”, spiega Cattaneo che ha appena pubblicato un libro su questo tema insieme alla giurista Marilisa D’Amico intitolato I diritti annegati (FrancoAngeli, 2016). In Italia sono le autorità giudiziarie a disporre le autopsie sui cadaveri recuperati in mare e ogni procura ha la possibilità di decidere autonomamente se chiedere a un medico legale di procedere con l’ispezione del cadavere.

“Se il caso si può chiudere dal punto di vista giuridico senza l’identità del defunto il pubblico ministero non è obbligato a chiedere l’autopsia né il prelievo del dna”, spiega Cattaneo. La priorità delle procure è determinare chi sia il responsabile di un naufragio o chi sia lo scafista e per questo al fine dell’indagine può essere irrilevante l’identità del defunto. Spesso il timore di incorrere in costi troppo alti induce i procuratori a far seppellire i morti prima di aver raccolto campioni biologici e senza che sia stata condotta un’autopsia.

La dottoressa Cristina Cattaneo con i suoi collaboratori nella base Nato di Melilli, in provincia di Siracusa, l’8 ottobre 2016. (Salvatore Cavalli, Ap/Ansa)

La mancanza di una prassi comune è stata denunciata anche dal rapporto Mediterranean missing condotto dall’università di York in collaborazione con l’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim) e pubblicato nel settembre del 2016. Il rapporto chiedeva alle autorità italiane ed europee di adottare un protocollo comune, che renda obbligatorio raccogliere dati post mortem su tutti i cadaveri recuperati nel Mediterraneo e che in Italia il mandato del commissario straordinario per le persone scomparse fosse esteso non solo ai tre naufragi del 3 e dell’11 ottobre 2013 e del 18 aprile 2015, ma a tutti i naufragi avvenuti nel Mediterraneo, e infine che fosse creato un archivio unico nazionale dei migranti morti senza nome.

Una questione di uguaglianza
Nel libro I diritti annegati emerge il quadro giuridico che obbliga ogni stato a fare tutti gli sforzi necessari per identificare i migranti morti in mare e a darne conto alle famiglie. L’identificazione dei morti è salvaguardata da leggi nazionali e internazionali, tra cui le quattro convenzioni di Ginevra del 1949 e i successivi protocolli. In Italia l’articolo 10 della costituzione parla chiaro sull’uguaglianza dei cittadini stranieri. “Non si tratta solo di un obbligo di carattere morale, ma di un obbligo giuridico”, scrivono Cattaneo e D’Amico nelle conclusioni del loro libro.

Il diritto internazionale umanitario obbliga gli stati all’identificazione del corpo per rispetto della dignità della vittima, inoltre costringe le autorità a fornire una sepoltura dignitosa e individuale del defunto e a registrare il nome, il cognome e tutte le informazioni personali in modo che le famiglie possano esercitare il loro “diritto a conoscere” la sorte del proprio familiare (articolo 26 della quarta convenzione di Ginevra). La scomparsa di un familiare, infatti, lascia chi resta nell’indeterminatezza, una condizione che provoca gravi sofferenze psicologiche e impedisce l’elaborazione del lutto.

Il trattamento che riserviamo ai morti parla della mancanza di rispetto con cui li consideriamo da vivi

In molti hanno riportato un disturbo postraumatico da stress. Le famiglie devono essere considerate le vere vittime di questi naufragi e devono essere coinvolte il più possibile dalle autorità nel processo di identificazione e di inumazione. Ma di fronte a questo fenomeno delle morti in mare, che è in aumento, l’Italia è stata lasciata sola dai partner europei. Il governo italiano ha deciso in autonomia il recupero del barcone naufragato al largo di Tripoli e tutti gli sforzi fatti dall’ufficio del commissario straordinario sono una goccia nel mare dell’indifferenza. “È stato giusto recuperare il barcone, la visione di tutti questi corpi morti parla più di qualsiasi racconto di un sopravvissuto”, afferma Cattaneo. In fondo il modo in cui li trattiamo da morti parla del fatto che non li consideriamo uguali a noi neanche da vivi.

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