13 aprile 2020 15:12

Quattro gommoni alla deriva da giorni, senza soccorso. Alarmphone, il centralino di volontari che riceve telefonate di allerta lungo la rotta migratoria più pericolosa del mondo, nel fine settimana ha dato la notizia che quattro imbarcazioni sono in panne con un totale di circa 250 persone a bordo, senza che ci siano mezzi civili o militari pronti ad aiutarle. L’organizzazione ha ricevuto messaggi e telefonate disperate dai migranti a bordo dei gommoni. Il 12 aprile l’ong Sea Watch ha dato notizia di un naufragio, smentita il giorno successivo da un comunicato della guardia costiera italiana.

“Nel finesettimana c’è stata un’attività molto intesa degli aerei di Frontex, in particolare del velivolo Eagle 1, l’agenzia europea per il controllo esterno delle frontiere. Il 12 aprile ho registrato quattro o cinque orbite di questo aereo, che coincidevano con le segnalazioni di Alarmphone. Di solito quando ci sono queste orbite ci sono degli avvistamenti di migranti”, spiega Sergio Scandura, giornalista di Radio Radicale che da anni monitora i voli dei mezzi europei nel Mediterraneo centrale. Ma Frontex non ha dato nessuna conferma ufficiale. Secondo Scandura, gli aerei dell’operazione Sophia non sono più attivi dalla fine di marzo, mentre gli aerei di Frontex monitorano dall’alto la situazione.

“Una madre ci dice che sua figlia di sette anni ha bisogno di aiuto e che cinque persone hanno perso i sensi sulla barca in pericolo”, è scritto sulla pagina Facebook dell’organizzazione Alarmphone, che ha ricevuto delle telefonate da un’imbarcazione con 47 persone a bordo. “Abbiamo parlato con loro alle 4.34, 6.37 e 6.51. Hanno detto che cinque persone sono svenute. Sono disperate dopo aver passato ottanta ore in mare. Le autorità sanno di loro da 56 ore, avrebbero potuto salvarle molto tempo fa. Quale leader europeo ha il coraggio di chiamare questa madre e spiegarle che devono morire perché non vale la pena soccorrerli?”.

Per visualizzare questo contenuto, accetta i cookie di tipo marketing.

Nell’ultima settimana il miglioramento delle condizioni meteorologiche ha fatto sì che almeno mille persone siano partite dalle coste libiche a bordo d’imbarcazioni precarie, ma i mezzi civili di soccorso delle organizzazioni non governative sono quasi tutti fermi, per ragioni di sicurezza legate all’emergenza coronavirus. Mentre i mezzi militari europei presenti in quel tratto di mare non intervengono e ignorano i segnali di allerta.

Anche il governo di Tripoli per la prima volta ha proclamato la Libia “paese non sicuro”, e le persone che erano state intercettate dalle motovedette libiche la scorsa settimana sono state bloccate per ore nel porto di Tripoli, secondo l’Organizzazione internazionale delle migrazioni. In Libia la guerra ricominciata nell’aprile del 2019 continua, e nelle ultime ore l’esercito del governo di unità nazionale (Gna) ha lanciato un’offensiva su Sabrata, una città a ovest di Tripoli, uno dei principali porti di partenza per le imbarcazioni di migranti in fuga verso l’Europa.

Siamo tutti sulla stessa barca?
La nave umanitaria basca Aita Mari, una delle poche ancora attive nel Mediterraneo, sta per prestare soccorso a uno dei quattro gommoni in pericolo nella zona di ricerca e soccorso maltese, ma ha fatto sapere di non avere abbastanza rifornimenti per sopportare un eventuale stallo in mare, che potrebbe essere determinato dalla chiusura dei porti europei. Il 6 aprile l’altra nave umanitaria presente, la Alan Kurdi, ha soccorso 156 persone, ma gli è stato negato un porto di sbarco sia dall’Italia sia da Malta, che si sono dichiarate “luoghi non sicuri” a causa della pandemia di coronavirus, contravvenendo a una serie di obblighi imposti dal diritto umanitario e dal diritto del mare.

Per visualizzare questo contenuto, accetta i cookie di tipo marketing.

Il 12 aprile, dopo un lungo stallo, l’Italia ha inviato una nave militare per trasferire i migranti soccorsi dalla Alan Kurdi, la nave dell’ong tedesca Sea-Eye, che una volta attraccati in Italia saranno sottoposti all’isolamento e alla quarantena gestita da Protezione civile e Croce rossa. L’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr) e l’Oim hanno ricordato che il soccorso in mare è un obbligo e che ci sono protocolli sanitari che possono essere adottati per evitare il contagio, senza contravvenire a nessuna legge internazionale.

La scorsa settimana una nave militare maltese, la P52, è stata accusata di aver sabotato un’imbarcazione con 75 persone a bordo. Dei militari maltesi sarebbero saliti a bordo e avrebbero danneggiato il motore dell’imbarcazione, lasciandola alla deriva. L’organizzazione Alarmphone ha condiviso l’audio di una telefonata ricevuta dall’imbarcazione in cui si diceva che un militare era salito a bordo per danneggiare i cavi elettrici del motore. Successivamente il gommone è stato soccorso, ma il governo maltese si è rifiutato di commentare l’accusa di sabotaggio.

L’epidemia ha fatto sparire i migranti dai nostri discorsi, ma la propaganda contro di loro resiste e addirittura s’istituzionalizza. La scorsa estate i migranti che provavano ad attraversare il mare per fuggire dalla Libia in guerra erano l’ossessione dei leader dei partiti sovranisti europei, che gridavano all’invasione contro ogni statistica e ogni evidenza fattuale. Ora i governi europei stanno usando la pandemia per giustificare condotte illegali come l’omissione di soccorso e chiudono i porti alle navi umanitarie, mentre le persone continuano a partire e a morire lungo le rotte migratorie dirette in Europa.

Invece di mettere in campo soluzioni rapide e pragmatiche in linea con il diritto internazionale, i governi sembrano succubi della propaganda sovranista e approvano decreti contrari al diritto internazionale. Come quello firmato dai ministri Lamorgese, Speranza e De Micheli la settimana scorsa, che ha dichiarato l’Italia “paese non sicuro” per chiudere i porti alle poche navi umanitarie rimaste attive nel Mediterraneo.

Intanto continuano gli sbarchi autonomi di migranti sulle coste italiane: il giorno di Pasqua 77 persone sono arrivate a Porto Palo di Capo Passero, in provincia di Siracusa, a bordo di imbarcazioni di fortuna. “Siamo tutti sulla stessa barca”, ha detto il presidente del consiglio Giuseppe Conte nelle scorse settimane, usando una metafora appropriata per descrivere la necessità di essere solidali di fronte all’epidemia di coronavirus, ma si è dimenticato delle persone lasciate alla deriva in mare negli ultimi giorni.

Data l’emergenza e i numeri degli arrivi particolarmente bassi (tremila persone arrivate in Italia via mare dal 1 gennaio al 10 aprile 2020), si sarebbero potute pensare soluzioni razionali e di lungo periodo per risolvere una volta per tutte la questione dei soccorsi in mare, che dovrebbero essere di nuovo gestiti dai governi e operati da mezzi militari europei con il supporto dei mezzi civili, come è stato a partire dal 2013 fino alla fine del 2o16. Ma, come ha detto qualcuno, si è scelto di lasciare la questione ai sovranisti.

Leggi anche

Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it