11 dicembre 2020 12:07

Questo articolo è uscito sul numero 1031 di Internazionale.

La prima cosa che vedo nel magazzino di Amazon a Swansea, in Galles, è un pacco di pannolini per cani. La seconda cosa che vedo è un enorme vibratore di plastica rosa. La superficie del magazzino è di 74mila metri quadrati o, secondo l’unità di misura standard di Amazon, l’equivalente di undici campi da calcio (il magazzino di Dunfermline, il più grande del Regno Unito, è grande come quattordici campi). Tra un’estremità e l’altra ci sono quattrocento metri. Insomma, c’è posto per un sacco di roba inutile.

Sul sito britannico di Amazon sono in vendita cento milioni di articoli. Qualsiasi cosa possiate immaginare, Amazon la vende. E se c’è qualcosa che non riuscite a immaginare, Amazon vende anche quella. Quando si passano dieci ore e mezza al giorno a prelevare articoli dagli scaffali ci si ritrova davanti ai recessi più oscuri del consumismo, agli oggetti più stravaganti, a tutto ciò che si può comprare con il denaro: braccialetti della fortuna degli One Direction, tutine per cani, grattiere per gatti a forma di console per dj, affetta-banane, rami finti. Mi trovo nello sterminato settore degli articoli “non trasportabili” su nastro: ci sono cibi biologici per cani vegetariani, per cani diabetici e per cani obesi, televisori da 52 pollici, confezioni di acqua da 6 bottiglie importate dalle Fiji e giocattoli erotici oversize tra cui un doppio vibratore di 45 centimetri (quelli di dimensioni normali sono stoccati nel settore degli articoli trasportabili).

Il secondo giorno, il nostro caporeparto ci dice che nelle ultime 24 ore abbiamo prelevato e imballato 155mila articoli. Domani, 2 dicembre (il giorno dell’anno in cui si fanno più acquisti online), arriveremo a 450mila. E questo è solo uno degli otto magazzini sparsi per il paese. Nel 2012, nel Regno Unito Amazon ha preso in carico 3,5 milioni di ordini in un solo giorno. Per l’azienda il Natale è come il Vietnam: una prova di carattere, una sfida capace di mettere in ginocchio e gettare nella disperazione anche il manager della distribuzione più esperto. Nelle ultime due settimane Amazon si è affidata a più di 15mila collaboratori esterni solo nel Regno Unito. Nei prossimi tre anni raddoppierà il numero dei magazzini nel paese. L’obiettivo è confermare la crescita che ha fatto diventare l’azienda una delle più importanti multinazionali del pianeta.

In questo momento a Swansea si fanno quattro turni di almeno cinquanta ore a settimana. Gli operai prelevano gli articoli dagli scaffali e li imballano uno a uno. O, come ha scritto qualche settimana fa il Daily Mail, fanno “gli elfi di Amazon” nella “grotta di Babbo Natale del ventunesimo secolo”.

Se Babbo Natale pagasse i suoi elfi temporanei il minimo salariale, li spremesse ai limiti della direttiva europea sull’orario di lavoro e li licenziasse se prendono tre permessi per malattia in tre mesi, sarebbe un paragone calzante. E, probabilmente, l’elusione fiscale non è uno dei valori fondanti del modello d’impresa di Babbo Natale, come osserva Brad Stone, autore del libro The everything store: Jeff Bezos and the age of Amazon. Babbo Natale non ha l’abitudine di intimidire i concorrenti come invece fa Amazon. Lo sostiene Mark Constantine, il fondatore dei cosmetici Lush, l’ultimo a denunciare l’azienda di Jeff Bezos all’alta corte del Regno Unito. Babbo Natale non è stato mai convocato dalla commissione dei conti pubblici della camera dei comuni né definito “immorale” dai parlamentari del Regno Unito.

Per una settimana sono stata anch’io un elfo di Amazon. Ho avuto un contratto interinale attraverso un’agenzia del lavoro di Swansea. A quanto pare non sono l’unica giornalista ad aver avuto l’idea: a fine novembre Panorama, un programma della Bbc, ha mandato in onda un servizio girato nello stesso magazzino con una telecamera nascosta. Per un attimo ho perfino temuto che Adam Litter, il giornalista della Bbc in incognito, mi avesse ripreso mentre io lo intervistavo in segreto: sarebbe stato il più grande paradosso della storia dell’informazione. Fortunatamente non è successo, ma non è un caso se l’attenzione dei giornali e delle tv si concentra sulla più grande azienda online del mondo. Amazon è il futuro dello shopping: un lavoro da “collaboratore” in un “centro logistico”, per usare il linguaggio dell’azienda. È il futuro dell’occupazione, e pagare meno tasse possibili è il futuro del business globale. Un futuro in cui le multinazionali avranno più potere dei governi.

Le ragioni del successo
Alzi la mano chi non ha mai fatto un ordine su Amazon durante una pausa al lavoro, o magari guardando la tv in pigiama, per poi vedersi recapitare a distanza di due giorni – piccolo miracolo della vita moderna – il caratteristico pacchetto di cartoncino marrone. C’è un motivo se Amazon ha successo: è bravissima in quello che fa. “Ha superato delle difficoltà enormi”, spiega Stone. “Ha risolto il problema di come immagazzinare decine di migliaia di prodotti e di come farli arrivare alle persone in tempo, senza sbagliare mai. Nessuno ha ottenuto risultati simili, nemmeno lontanamente”.

Il primo giorno di lavoro non ci siamo limitati a spedire 155mila articoli. Abbiamo prelevato e imballato i prodotti giusti e li abbiamo mandati ai clienti giusti. “Non abbiamo bucato un solo ordine”, ci dice con comprensibile orgoglio il caporeparto. A fine giornata entro nel mio account su Amazon. Sono uscita da casa di mia madre, vicino a Cardiff, alle 6.45 e sono tornata alle 19.30: mi serve una confezione di cerotti per le vesciche che mi sono venute ai piedi e non ho tempo di comprarla né prima di uscire né la sera quando torno. Sto per cliccare su “aggiungi al carrello” ma poi mi fermo a rivedere la storia dei miei acquisti su Amazon. Il mio primo acquisto, una Rough Guide dell’Italia, risale al febbraio del 2000: mi serviva per un articolo che stavo scrivendo su come prenotare una vacanza su internet. A rileggerlo oggi, quell’articolo fa quasi tenerezza. All’epoca non c’era la banda larga (avevo calcolato le spese di telefono in una giornata: 25,10 sterline) e
Google era ancora in fasce. Nell’articolo ritrovo molti nomi di siti ormai scomparsi (qualcuno si ricorda di Deckchair.com, il sito di Bob Geldof?). Ricordo che era stata un’esperienza frustrante: di tutto quello che avevo ordinato, solo il libro era stato consegnato in tempo.

“Ho fatto tutti i lavori”, dice un dipendente. “Questo è il peggiore. Ti pagano di merda perché se lo possono permettere. In giro non c’è lavoro”

Alle spalle c’è un lavoro incredibile. Lavorare in un “centro logistico” è come essere un minuscolo ingranaggio in una gigantesca macchina globale. È un processo industrializzato, su vastissima scala, reso possibile dalle nuove tecnologie. A prima vista la disposizione degli articoli sembra fatta da un ubriaco: sullo stesso scaffale si può trovare una confezione di lamette da barba insieme a una scatola di preservativi e a un dvd di My little pony. Invece rientra tutto in uno schema preciso, e non potrebbe essere diversamente. Questo rende ancora più incredibile il fatto che l’elemento centrale del sistema, quello che sposta, accantona, preleva, imballa e spedisce ogni singolo articolo, sia una persona in carne e ossa, non sempre affidabile e per natura incline a sbagliare.

È qui, dove le persone si scontrano con le esigenze economiche di una delle aziende tecnologiche più avanzate del pianeta, che la faccenda si complica. Quello di Amazon è un sistema che comprende aspetti non sistematizzabili come speranze, paure, progetti per il futuro, figli. E nelle regioni con un alto livello di disoccupazione e poche opportunità economiche – dove Amazon strategicamente costruisce i suoi centri di distribuzione (il governo gallese ha concesso all’azienda un finanziamento di 8,8 milioni di sterline per convincerla a portare il suo magazzino a Swansea) – la disperazione è dappertutto.

Corsa al badge azzurro
Durante il colloquio all’agenzia del lavoro ci fanno compilare dei moduli, ci sottopongono a un test per l’alcol e le droghe e si accertano che sappiamo leggere. Poi ci mostrano un video dove è spiegato il processo di lavorazione e sono intervistati alcuni dipendenti. “Come voi, ho cominciato a lavorare per Amazon attraverso un’agenzia nel periodo natalizio”, dice uno degli intervistati. “Ma subito dopo sono stato assunto, ho avuto una promozione e oggi, dopo due anni, sono responsabile d’area”.

Dopo Natale, ci dicono, Amazon assumerà delle persone a tempo indeterminato, e se lavoriamo sodo possiamo essere tra i fortunati. Nella zona di Swansea-Neath-Port Talbot, che ancora stenta a riprendersi dal declino postindustriale che ha colpito il paese, sono parole che pesano. Ma l’inganno è presto svelato. Ci sono quattro agenzie che hanno fornito personale ad Amazon, e i loro rappresentanti hanno tutti una scrivania presso il magazzino. Tra una sessione di formazione e l’altra chiedo a uno di loro quanti dipendenti a tempo indeterminato lavorano lì. Lui non capisce e risponde a tutt’altra domanda: “Be’, è chiaro che non tutti saranno assunti. Sarebbero troppi. È una cosa che le agenzie devono dire per convincere la gente”.

È proprio così. La maggior parte delle persone del mio reparto spera in un posto fisso. Uno di loro è Pete (non è il suo vero nome), disoccupato da tre anni. Prima faceva l’assistente sociale. Vive nella Rhondda valley con la sua compagna, Susan (è un nome falso), riparatrice di computer disoccupata. Anche lei lavora lì da poco. Impiegano più di un’ora per arrivare al lavoro. “Abbiamo dovuto svegliare i bambini alle cinque”, dice. Dopo un turno di dieci ore e mezza e un’altra ora di viaggio sono andati a prendere i bambini dai nonni e sono tornati a casa alle nove di sera. Il giorno dopo hanno fatto lo stesso, ma Susan si è slogata una caviglia all’inizio del turno. Ha chiesto un permesso per malattia e le hanno dato un “punto”. Al terzo punto sarà “dispensata”, che nel linguaggio dell’azienda significa licenziata.

Un magazzino Amazon a Milton Keynes, nel Regno Unito, 2011. (Sarah Lee, Eyevine/Contrasto)

Poi c’è “Les”, che si occupa della nostra formazione. Al collo porta uno speciale cordoncino riservato agli “ambasciatori” di Amazon, e un altro da primo soccorritore. Lavora al magazzino da più di un anno. Durante la settimana lo vedo sfrecciare da una parte all’altra a un ritmo decisamente superiore al mio. Ha più di sessant’anni e nei primi due mesi ha perso tredici chili. Al colloquio ci hanno detto che in un turno si arrivano a percorrere fino a 24 chilometri a piedi. Prima di essere assunto da Amazon, Les ha lavorato trentadue anni nella stessa azienda: quando lo hanno mandato via era dirigente. Gli chiedo quanto ha dovuto aspettare prima di trovare di nuovo un posto fisso. “Non l’ho trovato”, risponde, mostrandomi il badge verde. I dipendenti a tempo indeterminato hanno il badge azzurro, un salario orario migliore e stock option dopo due anni. Nel magazzino c’è una specie di apartheid occulto.

“Ti sventolano davanti i loro badge azzurri”, dice Bill Woolcok, un ex dipendente del “centro logistico” di Amazon a Rugeley, nello Staffordshire. “Chi ha il badge azzurro ha un salario migliore e dei veri diritti. Magari fanno il tuo stesso lavoro, ma loro hanno un posto fisso mentre tu sei solo carne da macello. Ho lavorato a Rugeley da settembre 2011 a febbraio 2012. La vigilia di Natale c’era un rappresentante dell’agenzia con una lista davanti all’uscita che diceva: ‘Tu torni dopo Natale. Anche tu. Tu no. Tu no’. Una cosa brutale. Mi ha fatto tornare in mente le storie della grande depressione, quando gli operai si mettevano in fila davanti ai cancelli delle fabbriche sperando di essere presi per poche giornate di lavoro. Ti rendi conto che non vali niente”.

Chiedo a Les perché non è stato assunto a tempo indeterminato. Risponde scuotendo la testa. Qualcuno dice che vengono assunti solo gli amici dei responsabili. Altri dicono che le risorse umane scelgono i nomi a caso. È una specie di magia nera che nessuno capisce. Mentre un’ondata di pettorine arancioni si riversa all’esterno dopo la fine del turno, mi metto a chiacchierare con un altro uomo di circa sessant’anni. Fino a un mese fa, mi dice, lavorava nella miniera di Unity, vicino a Neath. È stato licenziato per la seconda volta in due anni. Anche il Natale scorso ha lavorato da Amazon. “E subito dopo mi hanno mandato via, senza preavviso. Eppure ho lavorato sodo. Ho consumato le scarpe”.

Ho chiesto informazioni ad Amazon. Ecco la loro risposta: “Un certo numero di collaboratori rimane con noi per un periodo prolungato. Quando è possibile, siamo felici di confermarli garantendogli un incarico a tempo indeterminato. Nel 2013 siamo riusciti a creare 2.300 posti di lavoro a tempo pieno e indeterminato per i collaboratori stagionali. Abbiamo sfruttato la stagionalità del Natale per assumere ottimi lavoratori. Purtroppo non siamo in grado di confermare 15mila dipendenti stagionali”. E questo è quello che Amazon dichiara a proposito dei permessi per malattia: “Amazon è un’azienda in crescita e garantisce un elevato livello di sicurezza a tutti i suoi collaboratori. Come molte aziende usiamo un sistema per monitorare le presenze dei dipendenti. Prendiamo in considerazione e analizziamo tutte le situazioni di carattere personale riguardo alle presenze e nessuno viene mandato via perché si ammala. Il sistema attualmente in uso per monitorare le presenze è equo e trasparente. Nel 2013 ci sono stati undici licenziamenti di lavoratori a tempo indeterminato su una forza lavoro di oltre cinquemila dipendenti con quel tipo di contratto”. Vale la pena di ricordare che i lavoratori che arrivano attraverso le agenzie interinali non sono dipendenti di Amazon.

Si tratta senza dubbio di un lavoro fisicamente molto faticoso. Il servizio della Bbc si è concentrato soprattutto sui chilometri macinati da Adam, sulle vesciche ai piedi, sugli assurdi obiettivi di produttività e sul braccialetto orwelliano che sorveglia gli operai in ogni momento della giornata. Chi viene assunto tramite un’agenzia è pagato 19 centesimi all’ora più del salario minimo (che è di 6,50 sterline, equivalenti a 7,6 euro) e i turni durano dieci ore e mezza. Ma non è questo che infastidisce le persone con cui ho parlato. Sanno che ci sono molti altri lavori fisicamente estenuanti. Nel magazzino di Amazon quasi tutti affrontano stoicamente la fatica. E poi siamo in Galles: tra le persone c’è sempre grande calore e simpatia. Il mio caposquadra non è un automa freddo e distaccato. Ha cominciato dal basso. È gentile e incoraggiante. Ma ci sono dei problemi.

Pausa senza riposo
“Ho fatto tutti i lavori”, mi dice un dipendente che guida il muletto. “E questo è il peggiore di tutti. Ti pagano di merda perché se lo possono permettere. Perché in giro non c’è lavoro. Fidati, lo so per esperienza. L’ultima volta che ho lavorato prendevo dodici sterline all’ora. Qui me ne danno otto. In passato ho lavorato alla Sony: sono severi ma corretti. Qui ad Amazon quello che ti colpisce è l’ingiustizia”. Un’ingiustizia da cui non c’è via d’uscita. Dopo il servizio della Bbc, Hywel Francis, il rappresentante del collegio di Aberavon alla camera dei comuni, è riuscito finalmente a farsi ricevere dal direttore dell’ufficio relazioni esterne di Amazon. Il deputato non parla direttamente delle lamentele dei suoi elettori, ma dice che “l’impianto costituisce un’eccezione nella zona perché non c’è rappresentanza sindacale. È stato difficilissimo anche solo entrare e scoprire cosa succede lì dentro”.

È una specie di buco nero in cui la totale mancanza di controlli dà la sensazione che tutto sia ridotto all’osso: dagli scarponi di sicurezza fatti con la plastica più scadente, che quasi tutti i dipendenti a tempo indeterminato sostituiscono a loro spese perché non riescono a camminarci, alla politica del “se ti ammali ti licenzio” fino alla pausa di 15 minuti che non tiene conto di dove si trova il dipendente all’interno del magazzino. La mattina del terzo giorno, nel mio momento più nero, completamente provata nel corpo e nello spirito, impiego sei minuti per arrivare a piedi agli scanner, simili a quelli che ci sono negli aeroporti. La perquisizione dura un minuto. Un altro minuto lo passo in fila al gabinetto, poi prendo una banana dal mio armadietto, mi siedo per trenta secondi, mi rialzo e impiego altri sei minuti per tornare alla mia postazione.

Lavorare in un magazzino di Amazon vuol dire trascorrere le giornate a guardare negli occhi il consumismo e la nostra smania collettiva di oggetti materiali. Quest’anno è il turno delle Xbox, dei Kindle, di Save with Jamie, l’ultimo libro di cucina di Jamie Oliver (volete davvero “risparmiare con Jamie”? Allora non comprate il suo libro), e poi Pies & puds di Paul Hollywood e India di Rick Stein.

I libri di cucina degli chef famosi mi fanno imbestialire. Non vengono neanche tirati fuori dalle scatole. Se ne stanno impilati in enormi cataste ai due estremi della corsia. Basta friggere un uovo in tv ed è come se ti avessero dato il permesso di stampare soldi per l’eternità. Quasi tutti quelli che lavorano al magazzino sono bianchi, gallesi e di estrazione operaia. Io però lavoro anche con un africano che chiameremo Sammy e che ha chiesto asilo politico. Passo un pomeriggio a spiegargli cosa intende lo scanner quando gli dice di cercare una calza di Goodboy Luxury Dog o un cd di ipnosi della Gastric Mind Band.

Nel magazzino Amazon a Milton Keynes, nel Regno Unito, 2009. (David Levene, Eyevine/Contrasto)

Il calendario di Natale di Barbie rischia di farmi impazzire. Faccio avanti e indietro dal settore F, apro la scatola con il taglierino, estraggo l’ennesima copia, tolgo la scatola e la aggiungo alla catasta del riciclaggio, metto sul carrello il calendario (che è arrivato dalla Cina, poi inviato a un distributore esterno dal terminal container e quindi consegnato al magazzino di Amazon) e lo passo agli imballatori, dove sarà riconfezionato in una scatola diversa per poi raggiungere finalmente la sua destinazione finale: la gioia nel cuore di una bambina. In effetti, niente incarna la magia del Natale come l’immagine di una bionda pompata che fa shopping con quattro buste in mano. È qualcosa che non ha prezzo (9,23 sterline su Amazon con consegna gratuita).

Vogliamo pagare poco. E vogliamo ordinare standocene seduti in poltrona. E vogliamo anche la consegna a domicilio. Amazon ha capito come si fa. Con il passare del tempo, come succede ai tossicodipendenti, la mia dipendenza da Amazon è peggiorata. Nel 2002 ho ordinato il mio primo articolo diverso da un libro, il dvd della prima serie di This life; nel 2005 ho comprato il primo prodotto non Amazon, una copia usata di una biografia di Patricia Highsmith; nel 2008 l’equivalente online della mia prima iniezione endovena: ho comprato un televisore. “Siamo l’azienda in assoluto più attenta alle esigenze del cliente”, ci dicono durante la prima riunione, poco prima di spiegarci che se arriviamo in ritardo ci danno mezzo punto, e che dopo tre punti siamo fuori. Chiedo dopo quanto tempo scatta il ritardo. “Dopo un minuto”, mi rispondono.

Sono cresciuta nel sud del Galles e ho visto con i miei occhi le terribili ferite che la recessione degli anni ottanta ha inflitto a tutta la comunità, a cominciare dalla mia famiglia. Ho sempre saputo che c’è un velo sottilissimo a separare una vita dall’altra. È solo una questione di fortuna. Mio nonno lavorava in un magazzino a Swansea. Nel mio caso, un velo sottilissimo mi separa da una vita dentro Amazon. Ho un sacco di tempo per pensarci durante le dieci ore e mezza del turno.

La colpa è nostra
Al circolo dei lavoratori di Neath, uno dello staff mi dice che Amazon è “l’ultima spiaggia”. È il posto dove si va a lavorare se non si riesce a trovare nient’altro. È questa la cosa più sconfortante. Chiedo a tutti cosa facessero prima. Ci sono ex operai edili, direttori di albergo, laureati in marketing, tecnici informatici, falegnami, elettricisti. Qualcuno lavorava in proprio e qualcun altro è stato licenziato. Oppure l’azienda è fallita. Uno ha avuto un infarto. A un altro è scaduto il contratto. Avevano tutti un impiego qualificato, o comunque pagato meglio di quello attuale. Oggi lavorano per Amazon, prendono il minimo salariale e spesso ringraziano il cielo per questo.

Amazon non ha responsabilità per la situazione economica generale, ma è la situazione economica generale che rende inquietante il modello di Amazon. Oggi i posti di lavoro a rischio non sono solo quelli più invidiabili, come fare il libraio a Notting Hill alla maniera di Hugh Grant o il gestore di un negozio di dischi come il protagonista di Alta fedeltà. Ormai tutto è precario. I prossimi a perdere il lavoro saranno i dipendenti dei grandi magazzini come John Lewis o Tesco: i commessi del reparto calzature e i cassieri, ma anche quelli che lavorano alle risorse umane o in amministrazione, o quelli che si occupano del sito web o della rivista aziendale.

Il centro commerciale di Swansea è un paesaggio disastrato, una landa desolata di mercatini dell’usato e di “supermercati di serie b”, come dice Sarah Rees della libreria Cover to cover. “La gente sa benissimo come funziona il modello Amazon. Tutti quelli che fanno le consegne lo odiano, ma c’è da chiedersi se i clienti se ne ricordano quando fanno clic su “aggiungi al carrello”. Probabilmente no. Proviamo a battere il loro modello con la gentilezza”, dice. “Non si può rimettere il genio nella lampada”. Non ci sono altre armi per batterlo. Spesso anche per Sarah è più conveniente ordinare un libro su Amazon che dal suo distributore. “Alle persone lo diciamo apertamente, ma non c’è modo di competere con Amazon sul prezzo”.

L’appetito dell’azienda non conosce confini. “Si sta espandendo in ogni direzione possibile”, osserva Brad Stone. “È per questo che il mio libro si chiama The everything store. Vogliono arrivare a vendere qualsiasi cosa. Hanno già la loro offerta di servizi digitali e servizi alle imprese. Hanno cominciato a vendere opere d’arte. L’abbigliamento è un mercato ancora poco maturo e con grandi prospettive di sviluppo. La nuova frontiera sono i prodotti alimentari. Ci stanno puntando moltissimo perché in questo modo possono abbattere i costi della filiera. Se riescono a far arrivare i loro camion nelle grandi aree urbane, possono abbattere i costi dei corrieri esterni”.

Faccio notare che nel Regno Unito tutti consegnano prodotti alimentari: Tesco, Asda, Waitrose, Sainsbury’s. “Sospetto che faranno delle acquisizioni”, dice. Ovunque vada, Amazon distrugge occupazione. Secondo una ricerca dell’organizzazione non profit Institute for local self-reliance, le grandi catene tradizionali come quelle citate prima danno lavoro a 47 persone per ogni dieci milioni di dollari di fatturato. Nel caso di Amazon il rapporto è di 14 persone ogni dieci milioni. Lo scorso anno nel Regno Unito l’azienda ha fatturato 4,2 miliardi di sterline (circa 6,8 miliardi di dollari). Facendo una proiezione dei dati appena citati, si ottiene una perdita netta di 23mila posti di lavoro. E anche i posti che rimangono, faticosi e mal pagati nei loro magazzini, sono tutt’altro che garantiti. Amazon ha appena acquistato, per 775 milioni di dollari, un sistema automatizzato di smistamento chiamato Kiva. Da qui a dieci anni quanti saranno i posti di lavoro rimasti nel commercio al dettaglio, a qualsiasi livello?

Concorrenza sleale
Il nostro desiderio insaziabile di prodotti scontati, consegnati a domicilio in modo veloce ed efficiente, ha un prezzo. Il problema è che non abbiamo ancora capito qual è. Sono le tasse, ovviamente, che finanziano le strade su cui viaggiano i camion di Amazon, le scuole dove studiano i loro dipendenti, gli ospedali dove nascono i loro figli e dove forse, un giorno, saranno curati prima di morire. Tasse pagate da tutti i lavoratori e che l’azienda, come è emerso nel 2012, tende a eludere. Su un fatturato di 4,2 miliardi di sterline, nel 2012 Amazon ha pagato solo 3,2 milioni di imposta sulle attività produttive. Nel 2006 l’azienda ha spostato la sede dal Regno Unito al Lussemburgo e ha riclassificato la sua attività nel Regno Unito come semplice “evasione degli ordini”. Nella sede in Lussemburgo lavorano 380 persone. Nel Regno Unito circa 21mila. Fate voi i conti.

Secondo Brad Stone, l’elusione fiscale è nel dna dell’azienda. Fin dall’inizio Amazon è stata “costituzionalmente orientata a garantire ogni possibile vantaggio ai suoi clienti offrendo i più bassi prezzi possibili, sfruttando tutte le scappatoie fiscali conosciute o creandone di nuove”. Lo sa bene Mark Constantine, uno dei fondatori della catena di cosmetici Lush. Constantine non vuole vendere attraverso Amazon, ma questo non impedisce all’azienda di Bezos di sfruttare il marchio di Lush per attirare clienti sul suo sito e consigliare prodotti alternativi. “È un modo per intimidire le aziende e costringerle a usare i loro servizi. E noi ci siamo rifiutati. Ci siamo rivolti all’alta corte e li abbiamo denunciati per violazione del marchio. Abbiamo già speso mezzo milione di sterline per difendere la nostra azienda. La maggior parte delle imprese non può permetterselo. Noi l’abbiamo fatto per una questione di principio. Continuano a forzare la mano ma il loro modello di impresa non è sostenibile. Riescono ad andare avanti solo perché non pagano le tasse. Se fossero costretti a seguire il modello convenzionale sarebbero in difficoltà”. Conclude Constantine: “La loro è una forma di capitalismo pirata. Assaltano i paesi dei loro clienti, portano via i soldi e li nascondono dove gli conviene. Non è business in senso tradizionale. È il ritorno a una forma di capitalismo predatorio che ci riporta a un secolo fa, quando abbiamo deciso collettivamente di lasciarcelo alle spalle”.

A Swansea parlo con un uomo che chiameremo Martin. È sabato, c’è il sole e sul magazzino è calato il silenzio. Ci hanno detto di interrompere il lavoro. Il rubinetto degli ordini è stato chiuso. “Colpa del tempo”, dice. “Invece quando piove improvvisamente tutti impazziscono”. Mentre portiamo via le scatole viene fuori il discorso delle tasse. “Qui erano tutti arrabbiati”, dice. “La gente se la prendeva moltissimo. Ma io dicevo sempre: ‘Se qualcuno ti dicesse che puoi pagare meno tasse, perché dovresti decidere di pagarne di più?’”. Ha ragione. Ma hanno ragione anche quelli che si arrabbiano. Come mi spiega Stuart Roper della Manchester business school, oggi è impossibile ignorare il fatto che “alcuni di questi grandi marchi contano più dei governi. Sono più ricchi. Se fossero dei paesi avrebbero economie molto sviluppate. Sono multinazionali, e la situazione finanziaria globale gli permette di trasferire denaro in tutto il mondo. I governi sono talmente affamati di posti di lavoro che hanno rinunciato a ogni controllo”.

Pagano i contribuenti
È lo specchio di quello che succede nel magazzino. Dopo aver contribuito all’erosione di duecento anni di diritti e aver reso impotente un’ampia fascia di lavoratori affidandosi ad agenzie d’intermediazione, Amazon ha usato lo stesso trucco per eludere le norme sulla responsabilità aziendale. I politici si scagliano contro Amazon, Starbucks e Google perché non pagano le tasse. Ma ci pensano bene prima di modificare la legge per impedirglielo. “Prendono enormi finanziamenti dallo stato e non danno niente in cambio”, dice Martin Smith del sindacato britannico Gmb. “Dicono che stanno creando posti di lavoro ma in realtà stanno solo spostando occupazione da una parte all’altra. E i posti di lavoro che c’erano prima erano migliori, senza contare che i negozi tradizionali di solito pagano le tasse. Per le casse dello stato c’è un aggravio fiscale di 120 miliardi di sterline dovuto al fatto che il governo concede vari tipi di sussidi che permettono alle persone di sopravvivere. Se un’impresa paga il minimo salariale di fatto è come se fosse sovvenzionata dai contribuenti”.

Tornata a Swansea, durante l’ultima pausa del mio ultimo giorno di lavoro, mi siedo a chiacchierare con Pete e Susan, la coppia di Rhondda, e con Sammy, l’uomo che ha chiesto asilo politico. Susan continua a sperare in un lavoro a tempo indeterminato, ma ci crede sempre meno. Ha ancora la caviglia gonfia. La sua produttività è scesa. Ci dicono che la prossima settimana faremo un’ora in più al giorno e ci sarà una giornata extra di straordinario obbligatorio. Dovranno svegliare i bambini alle 4.30 e Pete teme di non riuscire a trovare una babysitter con appena tre giorni di preavviso. Chiedo a Sammy com’è questo lavoro rispetto a quello che faceva in Africa, dove era caposquadra in una fabbrica. Ci pensa un attimo, poi scrolla le spalle: “È uguale”.

(Traduzione di Fabrizio Saulini)

Questo articolo è uscito sul numero 1031 di Internazionale. Era stato pubblicato sull’Observer.

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