27 marzo 2020 14:49

Davanti all’ex prigione di Idlib un uomo ha steso per terra un telo e cerca di attirare l’attenzione dei passanti in cerca di clienti. In terra ha messo una teiera di metallo, qualche libro, delle scarpe e dei giochi per bambini. La maggior parte sono rovinati o rotti.

Ma è tutto quello che rimane ad Abdelrahman per cercare di sfamare la sua famiglia. Quest’uomo dal volto segnato dal sole e dalla guerra abita qui con altre 84 famiglie. “Ogni cella è divisa in tre, a volte in cinque, abbiamo messo dei lenzuoli, dei cartoni o dei sacchi per dividere gli spazi e ottenere un po’ di intimità”, spiega il vecchio facendoci visitare le quindici celle. Spolvera il suo giaccone verde di lana e si guarda intorno. “Le famiglie mi danno gli oggetti che non vogliono più e io li riparo, gli do una seconda vita. Poi con i pochi soldi che riusciamo a racimolare compriamo qualcosa da mangiare per tutti quanti”.

Da quando la guerra è cominciata nel 2011 il prezzo dei prodotti di base si è moltiplicato per venti. “Il prezzo del pane è fisso e quando possiamo compriamo olio e riso, insomma ci arrangiamo. Abbiamo ricevuto alcuni cartoni di aiuti umanitari, ma non erano sufficienti e, soprattutto, è stato parecchio tempo fa”, continua Abdelrahman.

Una bambina ci raggiunge correndo e si rifugia tra le sue gambe. Nasconde il volto dietro i suoi larghi pantaloni e gioca a guardarci di nascosto, poi si nasconde di nuovo ridendo. “È Rania, la mia nipotina, i suoi genitori sono morti in un bombardamento e da allora me ne occupo come posso”. Nel cuore della prigione, fra quattro alti muri, il cortile per l’ora d’aria dei detenuti è diventato lo spazio di gioco dei bambini. Le loro risate risuonano allegre.

Panni di ogni dimensione e colore sono sospesi su lunghe corde e asciugano al sole. Al primo piano gli scudi delle guardie che sorvegliavano la prigione sono stati disposti gli uni contro gli altri. Un muro improvvisato per proteggere i bambini che volessero avvicinarsi troppo al muro esterno. Lasciati a se stessi, questi bambini vanno ovunque.

Laila sorride. In nove anni di guerra è la sua sesta casa. La maggior parte dei suoi parenti è stata uccisa

Nella zona non c’è alcuna scuola o centro educativo, e comunque i loro genitori hanno troppa paura per mandarli lontano, fuori da questi edifici. “Gli aerei del regime hanno preso di mira le scuole. Appena non li vedo sono subito in pensiero”, ci spiega Laila, seduta sul bordo della sua cella. Dal 2014 secondo l’Unicef 478 centri scolastici sono stati obiettivo di attacchi da parte del regime o del suo alleato russo. Le Nazioni Unite ritengono che 2,8 milioni di bambini non vadano più a scuola e che 180mila insegnanti siano stati costretti a fuggire.

Il sole d’inverno è basso e fa fatica a riscaldare questi vecchi muri di pietra bianca spessi e alti. La donna si scherma gli occhi dal sole con la mano e indica le altre donne sedute sulle sedie sotto un albero. “Non ci conoscevamo prima di arrivare qui, adesso siamo diventati una grande famiglia”.

Laila sorride. In nove anni di guerra è la sua sesta casa. La maggior parte dei suoi parenti è stata uccisa. Dopo una serie di corridoi e di inferriate ci porta al rifugio di Khadija, la donna più anziana qui dentro. Originaria di Maaret al Numan, una città a sud di Idlib distrutta dai bombardamenti del regime e dell’alleato russo nello scorso febbraio, è dovuta scappare dalla sua casa. A 70 anni spiega di non avere più paura di morire. “Quello che mi rende triste è di non essere più a casa mia. Ci ho abitato tutta la vita e adesso morirò in un posto che non conosco. Così nonostante le condizioni ho cercato di creare un posto simile a casa mia”.

Si alza e ci mostra gli oggetti che è riuscita a conservare e che ha accuratamente disposto in questo piccolo rifugio. Alcune foto, un cuscino ricamato e un po’ di stoviglie. E su uno dei muri di questa cella sempre umida, si possono leggere le scritte lasciate dagli ex detenuti ai tempi in cui il regime di Assad controllava ancora la prigione. “Omar è qui, coraggio!”. “Abu Suleyman, 45 giorni”. Accanto, in una stanza improvvisata, due bambine giocano dall’altro lato di una tenda di plastica che è stata attaccata al soffitto.

Khadija le ascolta e ripete: “Non so dove sono i miei cari, sono tutti fuggiti quando la tempesta di fuoco si è abbattuta sulla città. Spero che stiano bene e al sicuro da qualche parte”. Quasi ventimila bambini sotto i cinque anni soffrono di denutrizione. Un terzo delle madri incinte o che allattano i figli sono anemiche. I due terzi dei bambini con un handicap non hanno accesso a servizi adeguati.

In fondo a un corridoio dall’altro lato dell’edificio, Ahmad e la sua famiglia condividono una cella con la famiglia di suo fratello e quella di suo cugino. Qui non ci sono né arredi né souvenir, Ahmad è originario della città di Homs. Prima della guerra aveva un negozio di mobili, poi si è unito all’Esercito siriano libero per proteggere le prime manifestazioni. Ma quando il suo quartiere, Bab Amr, è caduto nelle mani del regime, è cominciato l’esodo. Un esodo senza fine, sedici case in otto anni. “Qui non ho lavoro, non faccio nulla. Non ci resta più niente. In Siria ormai la normalità non esiste più da molto tempo. Credete che per i nostri figli sia normale vivere qui, di non potere andare a scuola? Viviamo nella paura”. Arriva suo fratello con una bambina in braccio e un’altra che sta attaccata ai suoi vestiti senza lasciarlo un momento. “Le mie figlie hanno conosciuto solo la guerra. Spero che un giorno potremo tornare a Homs, ma non ci credo molto. Se il regime riprende la città di Idlib, non so dove andremo. Non ci rimane più nulla”.

(Traduzione di Andrea De Ritis)

Questo articolo è uscito sul quotidiano libanese L’Orient le Jour.

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