01 ottobre 2021 13:41

Questo articolo è stato pubblicato il 16 novembre 2012 nel numero 975 di Internazionale.

Di solito non mi sento a mio agio quando sono in un bar da sola, ma ero a San Francisco da una settimana e nell’appartamento che mi avevano subaffittato non c’erano sedie, solo un letto e un divano. Gli amici che avevo in città erano tutti sposati, oppure di sera lavoravano. Un martedì sera ho cenato con una zuppa di lenticchie in piedi davanti al fornello. Una volta finito, ho spostato il divano nel salotto vuoto e ho cominciato ad aggiornare in continuazione le pagine dei miei social network. Questa non era vita. Un uomo in un bar da solo non si sarebbe fatto nessun problema, mi sono detta. E così sono andata in un bar da sola anch’io.

Mi sono seduta su uno sgabello al centro del bancone, ho ordinato una birra e aggiornato dal cellulare i vari social network. Aspettavo che succedesse qualcosa. Una partita di basket andava in onda su diversi schermi contemporaneamente. Il bar aveva dei divanetti in finta pelle rossi, una serie di lucine di Natale e una barista. Una coppia lesbica si faceva le coccole. E un uomo della mia età con gli occhiali guardava la partita. Essendo l’unico uomo e l’unica donna soli in tutto il bar, ci siamo guardati. Poi io ho cominciato a fingere di seguire la partita su uno schermo, che mi permetteva di guardare dall’altra parte. Lui, dandomi la schiena, si è girato a fissare il monitor appeso sopra i tavoli da biliardo.

Intanto, aspettavo che qualcuno mi abbordasse. Qualche sgabello più in là, due uomini sono scoppiati a ridere. Uno dei due mi si è avvicinato per farmi vedere come mai stavano ridendo. Porgendomi il suo cellulare, mi ha mostrato un post su Facebook. L’ho letto e cortesemente ho riso. L’uomo è tornato a sedersi. Io ho bevuto un po’ della mia birra. Mi sono concessa un istante di struggimento al pensiero del mio salotto.

Ogni epoca ha le sue utopie: la nostra è quella di renderci la vita più sopportabile usando la tecnologia

Ho preso il cellulare, ho aperto Ok Cupid, un sito di incontri, e ho aggiornato la pagina che ti dice se nel quartiere ci sono altre persone da sole in un bar. È un servizio che si chiama Ok Cupid Locals. Gli inviti di Ok Cupid Locals cominciano tutti con la parola “Dai”.

Dai, fumiamoci una canna e facciamo due chiacchiere :-)

Dai, facciamoci un brunch, un pranzo, una birra o qualche altro allegro bagordo tipico del sabato.

Dai, andiamo a bere qualcosa dopo Koyaanisqatsi al Castro.

Dai, vediamoci e facciamoci il solletico.

Dai, mangiamoci un biscotto.

“Dai, prendiamo e andiamocene” è la frase che mi viene sempre in mente, ma su Ok Cupid io non lancio mai segnali di chat, mi limito a rispondere. Quella sera ho fatto scorrere la pagina finché non ho trovato un bell’uomo che aveva scritto un invito innocuo: “Dai, andiamoci a bere qualcosa”. Ho guardato il suo profilo. Era brasiliano. Io parlo portoghese. Lui suonava la batteria. “I tatuaggi sono un elemento molto importante nella vita dei miei amici e dei miei familiari”, scriveva.

Ogni epoca ha le sue utopie: la nostra è quella di renderci la vita più sopportabile usando la tecnologia.

L’uomo generalmente ritenuto responsabile di aver inventato il mondo degli incontri online così come lo conosciamo è originario dell’Illinois e si chiama Gary Kremen, anche se lui il settore degli incontri online l’ha abbandonato del tutto nel 1997, proprio quando la gente cominciava a usare internet in massa. Oggi dirige un’azienda che si occupa di finanziare progetti legati all’energia solare, fa parte del consiglio comunale di Los Altos Hills in California ed è più noto per la sua lunga battaglia legale relativa alla proprietà del sito pornografico sex.com che non per aver inventato il business degli incontri online. A Miami, a una conferenza sull’industria degli incontri online, Kremen ha raccontato la genesi delle sue idee sui siti di incontri davanti a una platea di gente del settore.

Nel 1992 era un informatico di ventinove anni, uno dei tanti laureati alla Stanford business school che gestivano aziende di soft-ware nella Bay Area. Un pomeriggio, nella sua mailbox arrivò un’email come tante altre con un ordine d’acquisto. Solo che non era come tutte le altre: il mittente era una donna. All’epoca, ricevere un’email da donne che lavorassero nel suo stesso settore era una cosa rarissima. Kremen cercò d’immaginare la donna che l’aveva scritta: “Chissà se con me ci uscirebbe”. Poi gli venne un’altra idea: e se avesse creato un database di tutte le donne single del mondo? Se fosse riuscito a crearlo, e a far pagare chi voleva accedervi, con tutta probabilità ci avrebbe guadagnato dei soldi.

Nel 1992 era un’impresa impossibile: i modem trasmettevano le informazioni troppo lentamente. Poi c’era il problema delle donne che avevano accesso a internet: erano pochissime (ancora nel 1996, America Online stimava che, dei suoi cinque milioni di utenti, il 79 per cento fossero maschi). Ma nei settori più strettamente amministrativi le donne con un’email cominciavano ad aumentare.

E così Kremen partì dalle email. Mollò il lavoro, assunse un po’ di programmatori e creò un servizio di incontri online basato sulla posta elettronica. Chi si iscriveva riceveva un indirizzo email anonimo dal quale spedire il proprio profilo allegando una foto. Le foto arrivavano stampate su carta, e Kremen e i suoi dipendenti le scansionavano a mano. I single che ancora non avevano un indirizzo email potevano partecipare via fax. Nel 1994 i modem erano ormai diventati più veloci, e Kremen poté spostare la sua azienda in rete. Insieme con quattro soci, tutti maschi, fondò la Electric Classifieds, un’azienda basata sull’idea di ricreare online la pagina degli annunci di un quotidiano, a cominciare dagli annunci personali. Affittarono un ufficio in uno scantinato di San Francisco e registrarono il dominio match.com.

“FLIRT – AMORE – SESSO – MATRIMONIO E RELAZIONI” recitava il titolo di un primo business plan che la Electric Classifieds presentava ai potenziali investitori: “Il mondo degli affari nordamericano ha da tempo capito che la gente ha una fame enorme di servizi dignitosi ed efficaci che soddisfino questi potentissimi bisogni umani”. Kremen poi tolse la parola “sesso” dalla sua lista di bisogni, ma in quel primissimo documento erano illustrati diversi fondamenti alla base di quasi tutti i siti di incontri online. Per iscriversi bisognava compilare un questionario, in cui si indicava il tipo di rapporto desiderato, “matrimonio, relazione fissa, compagno di golf o di viaggio”. E gli utenti postavano foto: “Un cliente poteva scegliere di mostrarsi nelle sue attività e nei suoi abiti preferiti,
per dare a chi le avrebbe viste un’idea più precisa della sua personalità e del suo aspetto fisico”.

Chiara Dattola per Internazionale

Nel business plan veniva citata una previsione secondo cui entro il 2000 il 50 per cento della popolazione adulta sarebbe stato single (un sondaggio del 2008 rivelava che il 48 per cento degli statunitensi adulti era single, rispetto al 28 del 1960). All’epoca quello dei single, soprattutto se sopra i trent’anni, era ancora un gruppo con il quale pochi volevano avere a che fare. Ma negli Stati Uniti l’età in cui ci si sposava stava salendo, e il tasso di divorzi era già alto. Una maggiore mobilità della forza lavoro implicava che molti single spesso vivevano in città che non conoscevano, e i bei tempi in cui un padre poteva sistemare la figlia con un collega più giovane erano solo un ricordo. Da quando Kremen ha fondato la sua azienda, ben poco è cambiato nel settore: si è assistito a una proliferazione di siti di incontri sempre più di nicchia, i progressi tecnologici hanno reso possibili nuovi modi per conoscere altre persone, e ogni giorno sul mercato spunta qualcosa di nuovo. Ma come l’esperienza mi ha insegnato, le caratteristiche fondamentali dei siti di incontri non sono mutate.

Al tempo stesso, le grandi città tendono a rimpicciolirsi. Nel saggio in cui racconta la sua separazione da New York, Joan Didion propone a un uomo di portarlo a una festa dove potrebbe incontrare qualche “faccia nuova”, e lui scoppia a ridere. “Venne fuori che l’ultima volta che era andato a una festa dove gli avevano promesso ‘facce nuove’, nella stanza c’erano quindici persone in tutto, e lui era già andato a letto con cinque delle donne e doveva dei soldi a tutti gli uomini tranne due”. Didion non lo dice, ma io ho sempre dato per scontato che il suo amico sia andato lo stesso alla festa.

Mi sono iscritta a Ok Cupid a trent’anni, verso la fine del novembre 2011, con lo pseudonimo “viewfromspace” (veduta dallo spazio). Quando si è trattato di compilare la sezione del profilo in cui mi descrivevo, ho scritto: “Mi piacciono i documentari sulla natura e i pasticcini”. A partire da quel momento, sono stata inondata di video su YouTube sulle specie a rischio d’estinzione e di pubblicità di pain au chocolat.

Ok Cupid è stato fondato nel 2004 da quattro matematici di Harvard bravissimi a regalare cose per le quali la gente era abituata a pagare (come guide allo studio o musica). Nel 2011 hanno venduto l’azienda per cinquanta milioni di dollari alla Iac, che oggi possiede Match. Come Match, anche Ok Cupid chiede ai suoi utenti di compilare un questionario. Il servizio poi calcola per ogni utente la “percentuale di affinità” con altri utenti, e lo fa mettendo insieme tre dati: la risposta che l’utente ha dato a una certa domanda, come vorrebbe che un’altra persona rispondesse alla stessa domanda, e l’importanza che la domanda ha per lui o per lei. Queste domande vanno da “Ti dà fastidio il fumo?” a “Con che frequenza ti masturbi?”.

Frequentare questi siti ha distrutto la percezione che avevo di me stessa come persona che conosco, capisco e posso descrivere

Molte domande sono formulate con il chiaro obiettivo di sondare l’interesse dell’utente per il sesso occasionale: “Indipendentemente dai tuoi progetti futuri, cos’è più importante per te in questo momento, il sesso o l’amore vero?”; “Pensi che potresti andare a letto con una persona al primo appuntamento?”; “Mettiamo che tu abbia cominciato a frequentare una persona che ti piace molto. Per quel che ti riguarda, quanto tempo dovrebbe passare prima di farci sesso?”. Ho scoperto che questi algoritmi mi collocavano nella stessa area – classe sociale e livello d’istruzione – delle persone con cui uscivo di solito, ma che per il resto non erano particolarmente in grado di prevedere chi mi sarebbe piaciuto. Una cosa che accomunava la vita online a quella reale era la mia inspiegabile capacità di attirare i vegetariani. Io non sono vegetariana.

Dovrei forse aggiungere che alle domande sull’interesse per il sesso occasionale avevo risposto negativamente, ma tra le donne è una cosa comune. Più un sito di incontri ricorre ai tradizionali simboli del desiderio sessuale (maschile) – immagini di donne in slip, allusioni esplicite al sesso occasionale – e meno sono le probabilità che le donne ci si iscrivano. Con un rapporto maschi/femmine di 51 a 49, Ok Cupid può vantare un equilibrio che molti siti gli invidierebbero. Non è che le donne siano contrarie alla possibilità dell’incontro occasionale (io ne sarei stata ben felice, fosse spuntato il tipo giusto), ma per mettersi a cercare hanno prima bisogno di una sorta di alibi. Se n’era accorto anche Kremen, che per questo aveva scelto per Match un aspetto anonimo e neutro, e un logo a forma di cuore.

Io cercavo un fidanzato. Ma ero ancora parecchio in fissa con un altro, e volevo togliermelo dalla testa. La gente snocciola tutta contenta i suoi film preferiti e incrocia le dita, ma sotto la superficie allegra si annidano cose più oscure. Anche dietro il profilo all’apparenza più equilibrato si nasconde un accumulo di rimpianti. Io leggo romanzi dell’ottocento per ricordare a me stessa che le reazioni serene e solari all’indomani di una delusione amorosa non sono sempre state all’ordine del giorno. I siti di incontri, però, sono gli unici posti che conosco dove non esiste ambiguità nelle intenzioni, anche se c’è un minimo di sfumature, dall’essenziale “Sei carina” allo sconcertante “Ehi, ti andrebbe di venire da me a fumare una canna e farti fotografare nuda nel mio salotto?”.

Il sito di incontri più grande d’America è un altro servizio basato su algoritmi, Plenty of Fish, ma a New York tutti quelli che conosco usano Ok Cupid, per cui mi sono iscritta lì. Mi sono iscritta anche a Match, ma preferivo Ok Cupid, soprattutto perché lì gli uomini mi filavano sempre tantissimo. I bancari dalla mascella squadrata che regnavano su Match, con le loro foto di immersioni a Bali e piste da sci ad Aspen, mi consideravano così poco che avevo cominciato a deprimermi. Il fondo l’ho toccato inviando un occhiolino digitale a un uomo il cui profilo diceva “Ho una fossetta sul mento”, con foto di lui che giocava a rugby e posava a torso nudo su un peschereccio d’alto mare reggendo una lampuga grossa quanto un triciclo. Non mi ha risposto.

Ho assistito a una conferenza in cui lo scrittore Ned Beauman paragonava l’esperienza su Ok Cupid alle riflessioni di Carl Sagan sui nostri limiti: già fatichiamo anche solo a immaginare l’esistenza di forme di vita extraterrestri non basate sul carbonio, figuriamoci a recepire i segnali che potrebbero inviarci. Su Ok Cupid andiamo a caccia di ciò che pensiamo di desiderare. Ma se fossimo incapaci di vedere i segnali che ci vengono mandati, e men che meno di interpretarli?

Ok Cupid incute un po’ la stessa paura del database sognato da Kremen: quella di una scelta illimitata. Cosa che ha i suoi risvolti negativi. Come scrive la sociologa Eva Illouz nel suo libro Intimità fredde, “l’esperienza dell’amore romantico è legata a un’economia della scarsità, che a sua volta rende possibili il senso di novità e l’eccitazione”. Per contro, “lo spirito che regna su internet è quello di un’economia dell’abbondanza, in cui la persona deve scegliere e sfruttare al massimo le sue opzioni, ed è costretta a ricorrere a tecniche basate sull’analisi dei costi e dei benefici”. All’inizio era divertente, ma nel giro di un paio di mesi hanno cominciato a emergere le crepe. Quello che dice Beauman sulla nostra incapacità di valutare ciò che potrebbe essere attraente si è rivelato vero.

Una sera sono uscita con un compositore di musica classica che mi aveva invitato a vedere un concerto di John Cage alla Juilliard school. Dopo il concerto, siamo andati a cercare il busto di Béla Bartók nella Cinquantasettesima strada. Non l’abbiamo trovato, ma lui mi ha raccontato che Bartók era morto di leucemia proprio lì. Avrei tanto voluto che quell’uomo, perfetto sulla carta, mi piacesse, e invece no. Ho fatto un altro tentativo. La seconda volta siamo andati a mangiare ramen nell’East Village. Sono tornata a casa presto. Lui poi mi ha invitato a vedere un concerto alla Columbia university, e quindi a cena a casa sua. Ho accettato, per poi disdire all’ultimo minuto dandomi malata, e aggiungendo che secondo me il nostro rapporto aveva fatto il suo corso. Ero malata davvero, ma lui si è arrabbiato. Quell’appuntamento saltato, mi ha scritto, gli era costato “un sacco di tempo passato a fare la spesa, pulire e cucinare, tempo che in realtà non avrei avuto, avendo una scadenza di lavoro dietro l’angolo…”. La sua punteggiatura consisteva quasi esclusivamente di queste ellissi pynchoniane.

Mi sono scusata, dopodiché ho smesso di rispondere. Lui ha continuato per mesi a scrivermi lunghe email in cui mi aggiornava sulla sua vita, e alle quali io ho continuato a non rispondere finché non mi è venuta la sensazione che lui stesse lanciando la sua tristezza in un buco nero, dove veniva assorbita dalla mia.

Sono uscita con un artigiano mobiliere. Ci siamo visti in un caffè. Era un soleggiato pomeriggio di fine febbraio, ma appena arrivati è cominciata una stranissima nevicata, con i fiocchi che scintillavano al sole. Il caffè si trovava in un seminterrato, e ci siamo seduti a un tavolino accanto a una finestra che ci metteva appena più in basso di due chihuahua legati a una panchina sul marciapiede fuori. I due cani tremavano incontrollabilmente, malgrado i cappottini su misura. Rosicchiando i loro guinzagli, ci guardavano dalla finestra. Il falegname mi ha offerto un caffè e ha bevuto un tè da una pinta di vetro.

La conversazione stentava a decollare. Lui pareva annoiato. Aveva due occhi azzurri che vagavano irrequieti e i baffi. Aveva fatto una scuola di grafica in Arizona. Mi ha mostrato in foto alcuni mobili fatti da lui. Aveva le mani callose ed era alto, attraente ma cupo, e io mi sono chiesta se il problema ero io o se quello era il suo atteggiamento generale verso il mondo. Abbiamo scoperto di essere nati nello stesso ospedale, l’Allentown hospital di Allentown, in Pennsylvania, solo che io avevo sette mesi più di lui. In un’altra epoca, quella in cui il matrimonio veniva deciso dalla religione, dalla famiglia e dal villaggio, oggi probabilmente avremmo svariati figli. E invece i miei genitori si erano trasferiti all’altro capo del paese quando io avevo tre anni, lui era rimasto ad Allentown fino all’età adulta e adesso, trentenni, vivevamo tutti e due nella desolazione di Bedford-Stuyvesant. Lui si considerava un ribelle, e amava fare l’artigiano tanto quanto aveva odiato lavorare in un ufficio.

Dopo aver bevuto il tè, è andato in bagno, e tornando si è rimesso la giacca senza dire una parola. Io mi sono alzata e ho fatto lo stesso. Risalendo le scale, siamo usciti nel vento di febbraio. Poi ci siamo congedati.

Gli incontri in rete mi hanno offerto tantissime opportunità di andare in un bar a bere qualcosa con degli sconosciuti in serate che altrimenti avrei trascorso infelice e sola

Sono uscita con un uomo, poi rivelatosi un parrucchiere, che mi aveva attratto col suo fascino texano. Si è presentato in ritardo al nostro appuntamento ad Alphabet City, avendo servito alcune clienti dell’ultimo minuto bisognose di una messa in piega non prenotata per presentarsi ai loro appuntamenti. Aveva due scimitarre tatuate ai lati del collo. Gli ho chiesto quale fosse il significato. Mi ha risposto che non ce l’avevano. Erano errori. Rimboccandosi le maniche, mi ha mostrato altri errori. Da ragazzo, a Dallas, si era lasciato usare dagli amici che volevano esercitarsi. Definire dei tatuaggi un errore era diverso dall’essersene pentiti. Lui non se ne pentiva: era come vedere il se stesso sedicenne che lo mandava affanculo. “Ti credi cambiato”, gli diceva il sedicenne attraverso quei tatuaggi: “Fottiti, io sono ancora qui”.

Ok Cupid ha avuto un altro effetto non previsto: postare il mio profilo, anche se sotto pseudonimo, è stato come appendermi al collo un cartello con su scritto “Vendesi”. Persone che conoscevo nella vita reale e che vedendomi su Ok Cupid mi avevano riconosciuto dalla foto hanno cominciato a contattarmi con una certa frequenza: “Ti ho visto su Ok Cupid e mi sono detto: scriviamole”. Con uno di questi sono andata a mangiare colombiano a Greenpoint. Arrivando, l’ho trovato che leggeva alcuni documenti che l’Agenzia per la sicurezza nazionale aveva da poco svincolato dal segreto istituzionale su John Nash, il genio schizofrenico immortalato in A beautiful mind. Abbiamo ordinato arepas e birra. Lui mi piaceva. Aveva un lavoro che amava molto in un’ottima galleria d’arte e abitava in un grande appartamento affacciato su un parco pieno d’alberi. Abbiamo parlato di gruppi black metal del nordovest, e della musica inascoltabile e dell’agricoltura sostenibile come forme di resistenza al capitalismo. Dal Cafecito Bogotá ci siamo spostati a piedi nel suo impeccabile appartamento, dove lui ha messo su musica ambient e io ho coccolato i suoi due gatti. Abbiamo deciso di condurre un esperimento con Ok Cupid Locals: lui ha lanciato il messaggio “Dai, facciamo lkjdlfjlsjdfijsflsjlj”. Mi sono seduta sul divano accanto a lui. Ho aggiornato l’applicazione sul mio telefono per vedere se il suo messaggio era apparso. Sì. Ci siamo guardati. Mi ha accompagnato a prendere il treno.

Più o meno nello stesso periodo ho conosciuto qualcuno nel mondo reale. Alla fine non ha funzionato, ma è servito a ricordarmi come ci si sente ad aver voglia di finire a letto con qualcuno senza sapere già prima quali sono i suoi libri preferiti. È tornata la noia, e l’ex fidanzato ha ripreso il suo posto nelle stanze della memoria. Allora sono andata a ovest, a farmi schiacciare da quell’appartamento semispoglio a San Francisco.

Come molti, anch’io mi sono avvicinata ai siti di incontri spinta dalla solitudine. Ben presto ho scoperto, come capita a tanti, che questi possono solo accelerare e infittire gli incontri con altre persone single, che tuttavia sono e restano incontri casuali. Frequentare questi siti ha distrutto la percezione che avevo di me stessa come persona che conosco, capisco e posso descrivere. Ha avuto un effetto altrettanto dannoso sulla mia convinzione che gli altri siano in grado di conoscersi e descriversi con precisione. Mi ha lasciato in eredità una certa irritazione nei confronti della psicologia. Ho preso a rispondere solo a chi si descriveva in modo succinto, dopodiché ho cominciato a saltare le descrizioni, usandole solo per assicurarmi che la gente su Ok Cupid Locals avesse un minimo di padronanza della lingua inglese, e che non fossero fanatici di destra.

Frequentando i siti di incontri, mi sono resa conto che le idee che abbiamo sul comportamento e sul livello di realizzazione personale degli esseri umani, formulate in centinaia di profili, si somigliano un po’ tutte, il che le rende noiose e quindi non particolarmente utili ad attrarre altre persone. Un’altra cosa che ho imparato è che il corpo non è un’entità secondaria. La mente contiene ben poche verità che sfuggono al corpo. Finché non entrano in ballo i corpi, la seduzione rimane provvisoria.

Nei meandri della solitudine, tuttavia, gli incontri online mi hanno offerto tantissime opportunità di andare in un bar a bere qualcosa con degli sconosciuti in serate che altrimenti avrei trascorso infelice e sola. Ho conosciuto gente di ogni tipo: un tecnico radiologo, un imprenditore ecologista, un programmatore polacco con cui per diverse settimane ho intrattenuto un rapporto affettuosissimo quanto casto. Eravamo due persone timide, e i miei sentimenti nei suoi confronti abbastanza tiepidi (al pari dei suoi, come ho poi scoperto), eppure siamo andati al mare, mi ha raccontato tutto sulla raccolta dei funghi in Polonia, ha ordinato i suoi burritos vegetariani in spagnolo e ci siamo trovati d’accordo su molte cose che non ci piacevano.

Tornando a quella sera a San Francisco: ho risposto a un messaggio e sono andata a bere qualcosa con uno sconosciuto. Ci siamo baciati, mi ha mostrato la sua particolarissima collezione di piante di marijuana, e abbiamo parlato del Brasile. Poi sono tornata a casa, e non abbiamo mai più scambiato una parola.

(Traduzione di Matteo Colombo)

Questo articolo è stato pubblicato il 16 novembre 2012 nel numero 975 di Internazionale. Era stato pubblicato sulla London Review of Books.

Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it