04 ottobre 2019 11:25

Questo articolo è uscito il 20 dicembre 2013 nel numero 1031 di Internazionale. L’originale era uscito sul quotidiano britannico The Guardian con il titolo Chris Hadfield: in space ‘you recognise the unanimity of our existence’.

Stare nello spazio è un’esperienza che disorienta. Nei primi giorni trascorsi in orbita la maggior parte degli astronauti scruta la Terra cercando qualcosa che gli ricordi casa. I russi cercano i loro grandi laghi, gli statunitensi le catene montuose. Chris Hadfield, ex comandante della Stazione spaziale internazionale, cercava la Plank road, una superstrada costruita nell’ottocento che attraversa l’Ontario del sud, in Canada. “L’hanno messa lì centocinquant’anni fa, e dall’orbita riuscivo a vederla perfettamente. Ehi! Io vengo da lì!”. Poi, dopo qualche giorno, la percezione si allarga “e cominci a vedere il mondo nella sua interezza”.

Hadfield, 54 anni, sorseggia un caffè da una tazza con il logo della Nasa nel giardino d’inverno della sua casa di Stag island, un rifugio pittoresco trecento chilometri a ovest di Toronto. Da quando è tornato dallo spazio, un anno fa, ha dovuto affrontare un problema tipico degli astronauti della vecchia scuola, un problema che l’indifferenza generalizzata per i programmi spaziali non ha affatto cancellato: non semplicemente la celebrità, ma una sorta di stupita adorazione. Di recente, durante un evento gli è stato chiesto davanti a cinquemila persone: “Qual è il significato della vita?”. Il video musicale che ha girato mentre era in orbita, una versione di Space oddity di David Bowie, è stato visto duecento milioni di volte. Le competenze di Hadfield sono straordinarie: è un pilota di caccia, un pilota collaudatore e un ingegnere aeronautico in grado di agganciare un razzo (“Non è come parcheggiare una macchina”). Ma non è per questo che il mondo lo adora. Delle centinaia di astronauti che sono andati nello spazio, nessuno ha umanizzato quest’impresa come ha fatto lui. È strano considerare come eccezionali quella sua maldestra esibizione con la chitarra e lo scambio di tweet con William Shatner (il capitano Kirk di Star Trek), ma nel contesto della stazione spaziale lo erano. Per la prima volta sembrava un’estensione della Terra. La sera prima della nostra intervista, mi racconta, ha fatto una passeggiata sul lungofiume e, guardando in alto, ha individuato il passaggio in cielo della Stazione spaziale internazionale, un puntino di luce nell’oscurità. “Io vivevo lassù”, ha riflettuto, con una disinvoltura che lascia di stucco.

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Hadfield è molto bravo a descrivere le sue esperienze, e non è detto che questo sia un talento tipico degli ingegneri (lui stesso, in modo molto diplomatico, ha detto di un ex collega super intelligente: “Forse non era molto portato per le relazioni interpersonali”). Ma dà anche l’impressione di essere una persona tranquilla: “Sembro un poliziotto”, osserva con sarcasmo quando sente dire che molte persone lo ritengono interessante, una cosa che sua moglie Helene trova divertente. In realtà somiglia a un professore di biologia, forse per i baffi e l’entusiasmo giovanile. “Te lo chiedono in continuazione: quand’è che le persone normali potranno andare nello spazio? Be’, io sono più o meno una persona normale”. A casa Hadfield non è oggetto di adorazione. Chiede a un fotografo di non fotografare le sue scarpe, perché Helene le odia e lo ucciderebbe se le vedesse in una foto. “Sei una moglie meravigliosa”, le dice quando gli porta dell’altro caffè, ed Helene risponde fulminandolo con lo sguardo.

Ritorno alla banalità
Queste qualità sono state utili per evitare il rischio di una sindrome che, come da tempo riconosce la Nasa, colpisce gli astronauti rientrati sulla Terra: il calo di tensione e il ritorno alle difficoltà della vita di tutti i giorni dopo un viaggio nello spazio. Quando è decollato dal Kazakistan lo scorso anno, Hadfield era già un veterano al suo terzo viaggio nello spazio, ma era comunque preparato alla possibilità di non sopravvivere alla deformazione mentale prodotta dalla missione. Questa volta non avrebbe semplicemente compiuto un viaggio nello spazio: avrebbe vissuto per sei mesi con altre cinque persone su una stazione spaziale grande quanto una casa di cinque stanze. “Siamo come una piccola città”, dice. “Dobbiamo avere a bordo ogni singola competenza esistente in una città. Siamo in sei, poi tre partono e li sostituiscono altri tre. Ma se hanno un problema lungo il tragitto, allora restiamo in tre. Perciò ogni trio che va in orbita deve saper fare tutte le cose necessarie per tutta la durata della permanenza nella stazione”. E se qualcosa va storto? Se un dottore a bordo dovesse morire? Sorride. “Nessuno può venire a prenderci”.

Nel 1992, quando Hadfield fu selezionato per il programma spaziale del Canada, non pensava di avere davvero la possibilità di andare nello spazio. La maggior parte degli astronauti non lo fa. Dopo vent’anni di addestramento in qualsiasi ambito – dalla medicina d’urgenza (Hadfield è in grado di compiere piccoli interventi chirurgici) al russo (che parla fluentemente) – si può anche finire dietro a una scrivania, sia pure l’emozionante scrivania del centro di controllo della missione.

Per Hadfield era già un miracolo poter fare l’addestramento. Prima del 1983 il Canada non aveva neanche un programma spaziale. Infatti, nel 1969, quando a nove anni Hadfield vide Neil Armstrong passeggiare sulla Luna e decise di diventare un astronauta, il suo era un obiettivo decisamente assurdo. O, per dirla con le sue parole, “assurdo, ma non impossibile. Pensate ad alcune cose che consideriamo professioni: guardate America’s next top model o le Olimpiadi. Queste sono cose assurde. Ma siamo esseri umani, e queste sono le cose che facciamo. Perciò ho pensato: che diamine, a me interessa”.

Finora ha partecipato a due passeggiate spaziali, una cosa che solo duecento persone hanno fatto nella storia. Ha pilotato una navetta Soyuz, a bordo della quale si hanno solo quattro secondi di tempo di reazione tra l’avaria del sistema e la morte. Il suo sangue freddo l’ha avvantaggiato fin dall’inizio. Hadfield ha fatto l’addestramento nell’aeronautica canadese (il padre era un pilota di linea per Air Canada), è stato selezionato da una scuola per piloti collaudatori e, alla fine, ha ottenuto un posto nel programma spaziale, che aveva reclutato quattro persone tra più di cinquemila candidati. In quell’occasione, e più tardi alla Nasa, ha superato test che avrebbero fatto impazzire la maggior parte di noi anche solo al livello teorico. I futuri astronauti sono sottoposti a esperienze potenzialmente stressanti, come la claustrofobia, per eliminare paure che potrebbero compromettere una missione. “Ti chiudono in una grande palla da spiaggia, sei completamente al buio e non ti dicono quando ti faranno uscire. Se per te è un problema, non sarai selezionato”. E lui come aveva reagito? “È stato fantastico. Ero in un luogo piccolo, oscuro, con una buona areazione e niente da fare per un po’. Bello”. Poiché c’era la possibilità che nessuna di queste competenze fosse usata nello spazio, Hadfield ha sviluppato una singolare filosofia: “Ogni cosa che impari ti fa sentire più a tuo agio. È un consiglio che do sempre ai ragazzi: se qualcuno ha voglia di insegnarvi qualcosa gratis, cogliete l’opportunità. Fatelo. Ogni volta. Vi permetterà di avere maggiori probabilità di successo. È un bel modo di affrontare la vita”.

Questa è una delle lezioni contenute nella nuova autobiografia di Hadfield, An astronaut’s guide to life on Earth, in cui sfrutta le sue esperienze nella stazione spaziale e durante gli anni di addestramento. Il consiglio è in gran parte controintuitivo: quando ti ritrovi a pilotare quella che è in effetti una grande bomba in orbita, è una buona idea “mettere a frutto anche le piccole cose”. La domanda principale che si pone un astronauta nei dieci pericolosissimi minuti dopo il decollo è: “Ok, qual è la prossima cosa che potrebbe uccidermi?”. Per farsi un’idea del pericolo: “Qualsiasi aeroplano sul quale abbiate viaggiato ha fatto migliaia di voli prima di prendere a bordo il suo primo passeggero. Migliaia. I veicoli all’inizio sono poco sicuri. Noi abbiamo fatto volare lo shuttle solo 135 volte in tutto. Ogni singolo volo è stato un volo di collaudo estremo. Con rischi molto alti”.

Il cibo nello spazio può risultare insipido: per insaporirlo si usa pepe sospeso nell’olio di oliva in modo che non voli via disperdendosi

Per evitare la paralisi in quei primi momenti è necessario affrontare uno per uno i dettagli delle liste di controllo e dei protocolli. Prima di ognuno dei suoi tre viaggi
nello spazio, Hadfield ha affrontato migliaia di esercitazioni e simulazioni alla Nasa, nel tentativo di anticipare ogni possibile emergenza, compresa la morte di una persona cara sulla Terra e la sua stessa morte (sono le cosiddette “simulazioni di morte”, alle quali sono invitate a partecipare anche le mogli). Durante l’ultima missione questa esercitazione è stata purtroppo messa in pratica: “Mentre ci trovavamo lassù è morta la madre di Tom Marshburn. Ne avevamo parlato in precedenza: eravamo sei uomini fra i trenta e i cinquant’anni, ed era probabile che qualcuno di noi perdesse un suo caro nei sei mesi che avremmo trascorso lassù. Per questo avevamo fatto delle simulazioni. Come ci saremmo sostenuti a vicenda? Cosa avremmo fatto? Poi è accaduto davvero. Abbiamo ricevuto una telefonata da Houston in cui si richiedeva un consulto medico privato con Tom, sapevamo già cos’era successo” (al confronto, dice Hadfield, prepararsi alla propria morte è relativamente facile. “Se muoio, il problema non è mio. Ero vivo e poi sono morto, tutto qui”).

In ascensore
Potete immaginare quanto Hadfield faccia impazzire la sua famiglia con queste simulazioni di disastri, ma è un’abitudine che non riesce a perdere: “Affronto tutto in questo modo”. Per esempio? “In ascensore entro e noto la fragilità dell’ambiente che mi circonda, e le competenze delle persone all’interno. Mi viene naturale pensare: ‘Ok, gli ascensori si bloccano in continuazione, è solo una questione di cavi che ci portano su e giù. Cosa farei se dovesse esserci un problema? Come reagirei? Non griderei né mi getterei per terra o mi attaccherei alla parete, non servirebbe a niente’”. Tutto ruota intorno alla preparazione e, almeno nello spazio, al controllo manuale degli istinti terreni: la risposta “combatti o fuggi”, per esempio, non è utile quando la tua astronave ha un problema. Hadfield è stupefatto quando osserva come i non astronauti si comportano nelle emergenze.

I dettagli della vita in assenza di gravità sono sempre affascinanti. “Tutti vogliono sapere com’è, quando m’invitano alla Royal Bank of Canada, in un asilo nido o alle Nazioni Unite”. Dormire nella stazione spaziale significa semplicemente galleggiare, “senza bisogno di materasso o cuscino”, scrive Hadfield. Il cibo nello spazio può risultare insipido: per insaporirlo, si usa pepe sospeso nell’olio di oliva, in modo che non voli via disperdendosi e facendo starnutire tutti. Non si lavano i vestiti: l’acqua non funziona da agente pulente, come succede sulla Terra, per questo gli astronauti indossano calze e mutande finché non diventano logori; poi li bruciano (prima della missione, Hadfield si era chiesto se la stazione spaziale puzzasse, ma a quanto pare non è così. Forse a causa dell’assenza di gravità i vestiti non aderiscono alla pelle).

La passeggiata nello spazio è il culmine di ogni missione, un’esperienza che solo una minoranza di astronauti riesce a fare. Una tuta spaziale può costare fino a un milione di dollari ed è in pratica una sorta di stazione spaziale personale. Essere intrappolati in uno di questi aggeggi mentre si galleggia in mezzo all’universo sarebbe l’ideale per soffrire di claustrofobia e agorafobia nello stesso momento. Hadfield, naturalmente, non ha alcuna fobia. Ma è un essere umano. “La passeggiata nello spazio supera tutto. È una situazione fenomenale. Avere la possibilità di guardare a destra e vedere il mondo, e poi voltarsi a sinistra e vedere l’universo, e capire per un momento che sei attaccato alla tua stessa esistenza solo con una mano. Si tratta di questo”.

La passeggiata nello spazio non somiglia a quello che si vede nel film Gravity. È così pericoloso, dice Hadfield, (una fessura nella tuta può causare la rottura dei polmoni, l’esplosione dei timpani e una rapida perdita di conoscenza), che non te ne stai lì fuori a gingillarti come fanno Sandra Bullock e George Clooney prima che tutto vada a rotoli. Hadfield comunque ha apprezzato il film. “Come hanno fatto a fargli avere un aspetto così bello? Naturalmente quando esci dalla tuta spaziale non indossi una canottiera e un paio di pantaloncini. Sandra Bullock era splendida con i suoi. Noi indossiamo un pannolino e un indumento per il raffreddamento ad acqua. E il nostro aspetto non è così gradevole”.

Durante la sua prima passeggiata nello spazio, nel 2001, Hadfield ha dovuto fluttuare fino all’estremità della stazione spaziale e smontare un’antenna. Prima che riuscisse a finire, l’antenna è esplosa. “Stavo cercando di afferrare quella roba e una parte dei frammenti è volata via. A quel punto Houston ha detto: ‘Ok, aspetta un attimo e capiamo cosa fare’”. Per quindici minuti ha galleggiato in orbita sopra la Terra. “Era una versione precedente della stazione spaziale, senza grosse maniglie di metallo. Aveva delle piccole guide di tessuto. Mentre mi tenevo, pensavo che somigliava al manico di una valigia da quattro soldi, e che quello era l’unico collegamento che avevo con tutto e tutti”. Dopo essersi stabilizzato, si è messo l’anima in pace. “Me ne stavo seduto lì a galleggiare, cercando di assorbire al massimo quell’esperienza. Solo nell’universo, con quella vista davanti”. Si è sentito solo? “No. Ti senti immensamente onorato e privilegiato; è uno sguardo su noi stessi che nessun altro può avere. Per me è stata un’esperienza soprattutto visiva. Non vaghi con la mente. L’assalto furioso di quello che mi entrava dalle pupille occupava tutto. Le trame e i colori del mondo cambiano in continuazione, e un intero continente ti passa accanto, mentre questa enorme astronave dorata, argentata e bianca è lì, nella tua mano, e se ti guardi alle spalle, c’è tutto l’universo. L’infinito”.

Un metro quadrato
Quando Chris Hadfield era piccolo, il suo insegnante portò la classe in un parcheggio vuoto, diede a ognuno un pezzo di spago e gli chiese di delimitare un fazzoletto di terra e di studiarlo per un’ora. “C’erano solo erbacce e rifiuti. Non ricordo molto delle scuole medie, ma quell’episodio lo ricordo bene. Se ti concedi un po’ di tempo per osservare, scopri che in pochi centimetri possono succedere molte cose. Quell’esperienza ci insegnò lo spirito di osservazione e un po’ di ecologia, e a me ha offerto una nuova prospettiva: riconoscere il mondo di meraviglie che esiste in un piccolo riquadro di ordinaria natura. Si può applicare a tutto. Se noti le piccole cose che ti circondano, non puoi annoiarti”.

Hadfield parla della vita una volta tornato sulla Terra. Le precedenti generazioni di astronauti non hanno avuto nessuno a cui rivolgersi o che potesse dargli una mano, e hanno avuto problemi psicologici. “Prendete quelli dell’Apollo: alcuni non avevano avuto il tempo di pensare al dopo. E non avevano nessuno con cui parlare. Un paio di loro tornarono profondamente cambiati, da un punto di vista religioso. O diventarono alcolizzati. Non riuscivano a gestire quel mutamento di prospettiva: poter coprire il mondo intero con il pollice, vedere se stessi ridotti a un puntino”. Per Hadfield e il suo equipaggio è stato più facile. Dagli anni sessanta la Nasa ha sviluppato un programma terapeutico per gli astronauti di ritorno dallo spazio. “Avevamo persone con cui parlare ed esempi da seguire. Non conosco nessun astronauta che di recente abbia avuto un’epifania in seguito al suo viaggio nello spazio”.

Hadfield ha pensato molto a cosa succede quando una persona ha la possibilità di
guardare la Terra dall’alto. “Ho potuto vedere qualcosa fuori dal quadro di riferimento di chiunque altro, qualcosa che offre una prospettiva molto diversa rispetto a quella degli altri. Come fai a razionalizzare quest’esperienza per il resto della tua vita?”. Resta in silenzio per un po’ e quindi aggiunge: “Devo solo renderla parte di quello che sono e accettarla, senza lasciare che mi ostacoli. Questa esperienza mi ha arricchito. Ti sarà capitato una volta nella vita di mangiare qualcosa di davvero buono. La cosa più buona di tutte. Questo significa che da quel momento in poi hai trovato il cibo disgustoso? Perché 14 anni fa hai assaggiato l’ambrosia? Probabilmente no. Dirai: questo piatto è davvero buono, e 14 anni fa ho mangiato l’ambrosia. Sono una persona fortunata. È questo il mio modo di gestire la follia, suppongo”. E cosa pensa della capacità di mantenere un senso di meraviglia per le cose sulla Terra? “È una scelta deliberata. Il cinismo è la più facile delle reazioni, vero? Ma è anche deludente e controproducente”.

Hadfield era deciso a trarre il più possibile dai cinque mesi sulla stazione spaziale. Voleva che ci fosse anche del divertimento, oltre alla ricerca medica ed ecologica. Arte, e non solo scienza. Uno dei suoi esperimenti preferiti a bordo gli fu suggerito dall’agenzia spaziale giapponese: sperimentare l’arte giapponese dell’espressione del riflesso lunare sull’acqua; in questo caso, si trattava del riflesso della Terra. “Ho dovuto costruire un cilindro e iniettarci dentro dell’acqua, con la Terra fuori del finestrino, e preparare una macchina fotografica per scattare delle foto alla Terra riflessa attraverso queste goccioline d’acqua che galleggiavano intorno. Questo non è il mio lavoro normale, vero? Ma l’ho trovato incantevole. Era una delle cose che preferivo fare lassù. L’hanno chiamato lo Sguardo blu sulla Terra. Mi piace molto questa definizione”.

La registrazione di Space oddity è capitata per caso, su suggerimento di Evan, uno dei tre figli di Hadfield. “Io gli dicevo che quassù avevo altro da fare. Non mi importava niente di Space oddity. Ma lui ha avuto ragione. La reazione . stato fenomenale. Quando sono atterrato, il primo essere umano che ho incontrato è stato un addetto alla ricerca e al soccorso che conoscevo da anni. . entrato nella Soyuz dicendomi: ‘Chris, ho visto il video, è grandioso’”. Hadfield ride. “Avevo appena riportato a casa un’astronave dallo spazio, e tu invece vuoi parlare di questo?”.

Essere la moglie di un astronauta è dura. Lo vedi poco, c’è la possibilità che muoia lavorando e devi competere con il suo interesse per l’universo. Chiedo ad Hadfield se, avendo la possibilità di partecipare alla missione di due anni per Marte, avrebbe esitato ad accettare. “Assolutamente no”, risponde. “Neanche per un secondo”. Mi guarda stupito. “E tu?”. Ehm. “Pensaci. Cosa stavi facendo tra il 1992 e il 1994?”. Uhm. “Esatto. Non te lo ricordi. E allora perchè non fare qualcosa di straordinario?”.

Quando sei nello spazio, spiega Hadfield, “capisci che condividiamo lo stesso destino”. Il suo video di Space oddity è diventato un fenomeno, aggiunge, non perché ci dice qualcosa dello spazio, ma perché ci dice qualcosa di noi stessi. “Ha contribuito a mostrare alla gente una cosa che io capisco bene: che questa è un’estensione della coscienza umana. La comprensione umana. La prospettiva umana su noi stessi. Dobbiamo capirla e renderla sempre più parte della nostra consapevolezza di esseri umani”. Ci vuole una vita intera per addestrarsi a un’esperienza di pochi minuti. Ma lui può dire: “Questo è stato un piccolo passo in quella direzione”.

(Traduzione di Giusy Muzzopappa)

Biografia di Chris Hadfield

  • 29 agosto 1959 Nasce a Sarnia, in Canada.
  • 1992 Comincia l’addestramento da astronauta nella Canadian space agency.
  • Novembre 1995 Compie la sua prima missione spaziale.
  • 2001 Durante la sua seconda missione fa la sua prima passeggiata nello spazio.
  • 12 maggio 2013 Alla fine della sua terza missione spaziale, durata sei mesi, registra un video in cui canta Space oddity di David Bowie.

Questo articolo è uscito il 20 dicembre 2013 nel numero 1031 di Internazionale. L’originale era uscito sul quotidiano britannico The Guardian con il titolo Chris Hadfield: in space ‘you recognise the unanimity of our existence’.

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