09 giugno 2020 11:32

Amina e Lana sono intorno a un tavolo, le mani infilate dentro ai guanti, il viso coperto dalle mascherine. Lana riempie i sacchetti, Amina li pesa. La luce entra dalla finestra, le pareti del centro giovanile del campo profughi di Shatila, a Beirut, sono spoglie, ma il pavimento è ingombro di sacchi di farina e patate e di casse piene di frutta e verdura. Un’altra foto ritrae Rola che prepara i pacchi, il capo avvolto nel velo, ai suoi piedi tanti sacchi neri, tutti uguali. In un’altra immagine le tre ragazze sono all’esterno, insieme al loro allenatore, Majdi. Tutto è pronto per cominciare il giro delle consegne.

Amina, Lana e Rola fanno parte del Palestine youth club, una squadra di basket femminile fondata a Shatila nel 2012 da Majdi, un uomo brizzolato e carismatico di 48 anni, che da due anni già allenava una squadra di calcio maschile. Da quando il governo libanese ha imposto in tutto il paese le restrizioni per contenere la diffusione del nuovo coronavirus, a marzo, gli allenamenti sono stati sospesi. Ma le ragazze e l’allenatore sono impegnati in un nuovo progetto: consegnare aiuti alimentari ad alcune delle famiglie più bisognose del campo, dove la povertà e la disoccupazione dilagavano già prima della pandemia. “Nel primo giro abbiamo consegnato beni di prima necessità, come pasta, olio e riso. La seconda volta abbiamo optato per frutta e verdura”, racconta Lana al telefono.

La raccolta fondi che ha finanziato la distribuzione degli aiuti è stata organizzata da Basket beats borders, un progetto nato nel gennaio del 2017 dall’incontro di Majdi con David e Daniele, due ragazzi italiani con un passato da volontari nei campi per migranti in Grecia e in Bulgaria. Quando David ha conosciuto Majdi dopo essere arrivato in Libano, ha contattato Daniele, tornato a Roma, per trovare un modo di creare un legame tra la squadra di basket femminile e realtà simili in altri paesi. “Ognuno di noi ha portato un pezzettino necessario a creare tutto l’insieme”, ricorda David su Skype.

Scambi culturali
A Roma Daniele ha coinvolto gli All reds basket, una squadra popolare legata al centro sociale Acrobax, che a sua volta ha allargato il progetto ad altre due formazioni romane: le squadre femminili dell’Atletico San Lorenzo e del Lokomotiv Prenestino dell’ex Snia. “L’idea è abbattere dei confini geopolitici, culturali e linguistici attraverso lo sport”, spiega Marco di All reds baskets. Così, nonostante le difficoltà burocratiche, le ragazze della squadra di Majdi hanno visitato Roma per due volte, nel giugno del 2017 e del 2018, e hanno trascorso una settimana a fare allenamenti, a giocare partite e a conoscere le realtà sociali.

Nel 2019 il progetto è arrivato nei Paesi Baschi e nell’ottobre di quell’anno è stata una delegazione italiana ad andare a Beirut, proprio in concomitanza con l’inizio delle proteste antigovernative nella capitale libanese. La tappa successiva doveva essere a luglio del 2020 a Madrid, grazie all’interessamento della Liga cooperativa de baloncesto, un’organizzazione che ha creato un campionato alternativo di basket, autogestito e autofinanziato, nella capitale spagnola. Ma poi è arrivata la pandemia e il viaggio è stato rimandato.

Il progetto non si è fermato, come conferma Marco: “Confrontandoci con Majdi e tenendo conto della situazione che si stava creando in Libano con le misure prese per contrastare il covid-19, abbiamo deciso di concentrare i nostri sforzi per aiutare quante più famiglie possibile all’interno del campo, lanciando il crowdfounding a marzo”. Majdi e le ragazze hanno preparato una lista delle famiglie più in difficoltà, hanno organizzato gli acquisti, usando come luogo di raccolta il centro giovanile finanziato con una precedente campagna di Basket beats borders, e poi hanno fatto la distribuzione porta a porta.

“A causa dell’emergenza sanitaria molti abitanti del campo hanno perso il lavoro e le famiglie si sono trovate senza soldi per comprare da mangiare”, dice Rola, che ha 19 anni, è la capitana della squadra di basket e frequenta il secondo anno di economia aziendale all’università di Beirut. Con i quasi cinquemila euro raccolti finora sono state organizzate tre consegne per cento famiglie e la distribuzione dovrebbe concludersi a metà giugno.

Terreno fertile per il virus
Il lockdown ha colpito in modo particolarmente duro gli abitanti di Shatila che, come quelli degli altri undici campi profughi sovraffollati sparsi per il Libano, lavorano soprattutto nell’economia informale, dato che le autorità libanesi gli impediscono l’accesso a 39 professioni. La disoccupazione è sempre stata alta, ma la crisi finanziaria che ha colpito il paese ha fatto perdere alla lira libanese il 60 per cento del suo valore da settembre e la scarsità di dollari americani ha reso difficile importare carburante, medicinali, grano e altri beni essenziali e ha causato un’impennata dei prezzi alimentari. “Tutto questo colpisce i profughi il doppio o il triplo rispetto ai libanesi”, ha detto a The New Humanitarian Hoda Samra, portavoce in Libano dell’Unrwa, l’agenzia dell’Onu che si occupa dei profughi palestinesi. Secondo l’Unrwa la disoccupazione all’interno dei campi è passata dal 65 al 90 per cento.

Le difficoltà economiche e la sfiducia nei confronti della classe politica sono alla base delle proteste che vanno avanti da metà ottobre 2019 in tutto il paese. Dopo l’interruzione dovuta alla pandemia, le manifestazioni sono riprese e il 6 giugno a Beirut ci sono stati scontri tra i manifestanti e le forze di sicurezza e tra diversi schieramenti.

Le ragazze del Palestine youth club durante una partita vicino al campo profughi di Shatila, ottobre 2019. (Daniele Napolitano)

“Il governo libanese ci ha detto di restare a casa e di mantenere le distanze, ma nel campo di Shatila, dove la densità abitativa è molto alta, è difficile farlo”, conferma Majdi al telefono. “Alcune persone cercano comunque di lavorare anche in condizioni poco sicure, per poter mantenere la famiglia”.

Il campo profughi di Shatila, uno dei più grandi del Libano, fu costruito nel 1949 per accogliere i profughi palestinesi cacciati dalle loro terre in seguito alla nascita di Israele. Inizialmente pensato per cinquecento unità abitative, da allora il campo è cresciuto di dieci volte, sviluppandosi soprattutto in verticale, con l’aggiunta di piani agli edifici già esistenti.

Oggi circa trentamila persone vivono in un chilometro e mezzo quadrato tra il campo e l’adiacente quartiere di Sabra. Un’area che nel 1982 fu testimone del massacro compiuto dai falangisti cristiani sotto la supervisione dell’esercito israeliano, in cui furono uccise tra le 700 e le 3.500 persone, a seconda delle fonti. Negli anni ai palestinesi si sono aggiunti profughi provenienti da altri paesi, dalla Siria soprattutto, ma anche da Marocco, Yemen, Sri Lanka, Bangladesh ed Egitto, e sono arrivati anche alcuni libanesi poveri.

Il campo può essere un terreno fertile per la diffusione del covid-19. Famiglie numerose vivono in appartamenti piccoli, spesso composti da una sola stanza. Le condizioni igieniche sono precarie, rifiuti e sporcizia sono sparsi ovunque e i cavi dell’elettricità penzolano accanto ai tubi dell’acqua lungo gli stretti vicoli bui. Inoltre i profughi palestinesi, e in misura minore anche i siriani, hanno un accesso limitato ai servizi sanitari e all’assistenza sociale.

Finora è stato registrato un solo caso di covid-19 nel campo profughi palestinese di Wavel, vicino alla città di Baalbek, nell’est del paese, a fine aprile. In Libano invece si contano più di 1.300 contagi e 28 decessi. Ma in questi insediamenti le autorità libanesi hanno imposto delle misure ancora più rigide rispetto al resto del paese, e alcuni politici hanno chiesto di isolare completamente i campi. D’altra parte la diffusione dei test diagnostici è stata minima. In tutto il paese il governo ha fatto circa 56mila tamponi, ma solo quattrocento tra i profughi palestinesi, di cui 16 a Shatila, secondo i dati dell’Unrwa.

Le condizioni igieniche sono precarie e i cavi dell’elettricità penzolano accanto ai tubi dell’acqua

Anche la risposta dell’Unrwa all’emergenza sanitaria è stata lenta, a causa della mancanza di fondi dovuta soprattutto al taglio dei finanziamenti statunitensi decisa dal presidente Donald Trump nell’agosto del 2018. L’agenzia ha lanciato diversi appelli ai donatori per finanziare la risposta al covid-19, ma finora ha ricevuto meno della metà dei 14 milioni di dollari richiesti a marzo. Il sussidio di 90 dollari previsto per le famiglie in difficoltà all’interno dei campi profughi libanesi è stato tagliato a 25 dollari. Per riempire questo vuoto anche altre organizzazioni locali e internazionali distribuiscono aiuti nei campi. “E noi cerchiamo di fare la nostra parte”, assicura David.

“Abbiamo sempre cercato di renderci utili all’interno del campo”, conferma Majdi, “c’è un legame tra noi e gli abitanti perché lo sport fa parte della società. Il nostro impegno è stare al fianco delle persone”. È un aspetto che sottolinea anche Lana, che ha 18 anni, gioca a basket da due anni, frequenta l’ultimo anno di liceo e tra pochi giorni ha gli esami finali: “Non giochiamo solo a basket, facciamo molte altre cose per la comunità. Cerchiamo sempre di aiutare e di creare legami con l’esterno, con il resto del paese e con tutto il mondo”.

Per queste ragazze la connessione tra il locale e il globale è sempre stata molto forte. Dai vicoli di Shatila ai campi di basket di Roma o Madrid il passo è breve. D’altra parte le giocatrici del Palestine youth club sono abituate ad affrontare le difficoltà. “A volte riceviamo delle critiche da parte di esponenti della comunità palestinese che non vedono di buon occhio il fatto che delle ragazze giochino a basket”, racconta Lana, “è dura per noi, ma non ci importa, noi vogliamo solo giocare, divertirci e stare insieme”.

La squadra è composta da circa venti-venticinque giocatrici tra diciassette e ventidue anni. La maggior parte sono palestinesi, ma ci sono anche ragazze libanesi, delle siriane e una senegalese. L’opposizione arriva anche dalle autorità libanesi, che impediscono alla squadra di partecipare al campionato e di giocare con altre formazioni libanesi.

Per questo il progetto Basket beats borders è così importante per loro. Anche se è stato molto difficile ottenere i visti e i permessi per tutte, ha consentito a molte di loro di lasciare il paese per la prima volta. “Inoltre le ha aiutate a focalizzarsi sul loro futuro e a prendere coscienza di alcuni problemi, come i matrimoni precoci. Le ragazze parlano sempre di quello che vogliono, di quello che cercano e delle loro difficoltà, il progetto è parte integrante della loro vita”, spiega Majdi. “La squadra è come una famiglia”, conferma Rola. E se ora la priorità è aiutare gli abitanti di Shatila a superare questo momento difficile, il pensiero è sempre al prossimo canestro.

Il trailer del documentario Sisterhood di Domiziana De Fulvio

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Sullo stesso tema Domiziana De Fulvio ha girato un documentario su un progetto di basket popolare femminile tra Roma, Beirut e New York.

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