24 novembre 2022 12:55

Il 20 novembre l’esercito turco ha condotto una serie di raid contro obiettivi curdi nel nord della Siria e nel Kurdistan iracheno, causando la morte di circa trenta persone. In risposta alcuni razzi sono stati lanciati alla frontiera turca, provocando tre morti e sei feriti. Ankara accusa il Partito dei lavoratori del Kurdistan (Pkk) e le Forze democratiche siriane (Fds) di essere responsabili dell’attentato che ha causato sei morti e 81 feriti a Istanbul il 13 novembre, ma entrambi i gruppi hanno negato il loro coinvolgimento.

L’attacco segna un nuovo picco nelle tensioni tra la Turchia e i curdi. Da tempo Ankara minaccia un intervento nelle zone curde semiautonome della Siria, che sono controllate dai combattenti delle Unità di protezione popolare (Ypg), affiliate al Pkk, e dove sono presenti anche soldati turchi. Finora però l’opposizione della Russia, dell’Iran e delle potenze occidentali aveva fermato i piani del presidente turco Recep Tayyip Erdoğan. L’attentato ha offerto ad Ankara il pretesto per passare all’azione, sfruttando anche l’aumento dei sentimenti nazionalistici e contrari alla presenza dei profughi siriani in vista delle elezioni presidenziali e parlamentari che si svolgeranno nel giugno 2023.

Il Pkk dal 1984 combatte una ribellione sanguinosa contro lo stato turco con l’obiettivo di conquistare l’indipendenza o una maggiore autonomia. La Turchia, l’Unione europea e gli Stati Uniti lo considerano un gruppo terroristico. Questi paesi hanno però opinioni diverse sulle Ypg. Sotto la bandiera delle Fds, le Ypg sono state alleate di Washington nella battaglia contro il gruppo Stato islamico (Is) in Siria. Un piccolo contingente di soldati statunitensi è ancora stanziato nel nordest del paese, vicino al confine turco.

Dopo l’attentato del 13 novembre (il primo di questo tipo in più di cinque anni), le autorità turche hanno pubblicato la foto di una donna che è stata arrestata con l’accusa di aver piazzato la bomba e di lavorare per il Pkk. Decine di altre persone sospettate di essere coinvolte nell’attentato sono state arrestate. Un’analisi del Jerusalem Post sottolinea però che non sono state fornite prove a sostegno di questa versione dei fatti: “Mentre domenica sera la narrativa ufficiale di Ankara era che l’esplosione a Istanbul ‘poteva’ essere terrorismo, lunedì mattina non solo era stato deciso di sì, ma era anche stata trovata la colpevole e ogni pezzo del puzzle era al suo posto”.

L’articolo fa notare anche altre incongruenze: “Secondo le autorità turche, la donna è entrata in Turchia da Afrin, in Siria, una zona che era sotto il controllo curdo fino all’invasione condotta dalla Turchia nel 2018, in seguito alla quale molte persone sono state costrette a fuggire o a subire la pulizia etnica dei turchi. Afrin è attualmente in mano ai ribelli siriani sostenuti dalla Turchia e ad Hayat tahrir al sham (Hts), un gruppo affiliato con Al Qaeda. Di recente l’Hts ha rafforzato la sua presenza ad Afrin e nella zona sono stati individuati dei jihadisti del gruppo Stato islamico. Non è chiaro come una donna potrebbe spostarsi da Afrin fino alla Turchia, considerato che Ankara ha costruito un muro e una recinzione alla frontiera e mantiene una forte presenza di agenti di sicurezza nella zona, per impedire ai siriani di fuggire nel paese vicino. Questo non ha impedito le dichiarazioni di Ankara. Potrebbe trattarsi di una scusa per sostenere l’Hts o altri gruppi, per aumentare il suo controllo sull’area o per perseguitare i curdi”.

Le autorità turche hanno detto subito che l’attacco di Istanbul era legato ad “Ayn al Arab”, il nome arabo di Kobane, che spesso Ankara usa nel tentativo di cancellare la storia e l’identità curda della città. E proprio Kobane è stata uno degli obiettivi del bombardamento del 20 novembre. Non è da sottovalutare il significato simbolico di questa città a maggioranza curda, epicentro della resistenza contro l’Is dal 2014 e su cui Ankara vorrebbe imporre il suo controllo nell’ambito del piano per stabilire una “zona di sicurezza” di trenta chilometri lungo il nord della Siria. La Turchia ha invaso il nord della Siria tre volte dal 2016.

Non è da sottovalutare il significato simbolico di Kobane, epicentro della resistenza contro il gruppo Stato islamico

I bombardamenti turchi hanno colpito anche la zona di Sinjar, nel nord dell’Iraq, dove vive la minoranza yazida, massacrata dall’Is nel 2014. Secondo alcuni esperti Ankara potrebbe proseguire l’offensiva con un’operazione via terra. Oytun Orhan, che si occupa di Siria all’istituto Orsam di Ankara, ha spiegato ad Arab News che scegliendo di colpire obiettivi come Kobane e Sinjar la Turchia vuole segnalare agli Stati Uniti e agli altri paesi occidentali che non si fermerà, anche se i loro nemici non sono gli stessi.

I curdi non sono sotto attacco solo in Siria e in Iraq, ma anche in Iran, cioè in tutti i paesi (compresa la Turchia) in cui vivono e costituiscono una minoranza della popolazione. Per un ripasso della lotta lunga un secolo dei curdi per l’indipendenza, segnata da emarginazione e persecuzione, si possono leggere la cronologia del Council on foreign relations, lo schema della Reuters e la spiegazione della Bbc.

Negli ultimi giorni la repressione delle autorità iraniane si è abbattuta in particolare nelle regioni curde dell’ovest del paese, dove si sono moltiplicate le manifestazioni contro il regime. Secondo l’organizzazione per la difesa dei diritti umani Hengaw, almeno trenta manifestanti sono stati uccisi dalle forze di sicurezza nelle città curde. Solo a Javanroud ci sono state sette vittime dal 20 novembre. I funerali di due di loro si sono trasformati in una grande protesta il giorno dopo. In un video ripreso dalla Bbc Persian si vedono persone ferite e si sente il rumore degli spari. Un altro video mostra un convoglio di pick-up dei Guardiani della rivoluzione sormontati da mitragliatrici lungo la strada per entrare a Mahabad, dove le vittime negli ultimi giorni sarebbero almeno venti. Secondo gli attivisti, le autorità hanno imposto la legge marziale in città.

La regione curda è stata l’epicentro della rivolta fin da quando è scoppiata il 16 settembre in seguito alla morte di Mahsa Jina Amini sotto la custodia della polizia religiosa. Amini era originaria di Saqqez, una città del Kurdistan iraniano. I curdi rappresentano una delle principali minoranze etniche in Iran – circa dieci milioni su una popolazione di 83 milioni – e sono da sempre trascurati e discriminati dalle autorità. Secondo l’organizzazione Hengaw, che ha sede nel Kurdistan iracheno, dall’inizio delle proteste ottanta persone sono state uccise e quattromila arrestate nelle zone popolate dai curdi in Iran.

Il regime di Teheran accusa i gruppi curdi di opposizione armata attivi nel vicino Iraq di fomentare i disordini nella regione. Non ha fornito nessuna prova e i video che circolano sui social network mostrano solo manifestanti disarmati che affrontano le forze di sicurezza. Ma questo non ha impedito ai Guardiani della rivoluzione di bombardare il 21 novembre i quartier generali di quelli che definiscono “gruppi dissidenti” nel Kurdistan iracheno, uccidendo una persona. Altri raid con i droni sono avvenuti il 22 novembre. È il secondo attacco in meno di dieci giorni contro il Partito democratico del Kurdistan d’Iran e il gruppo nazionalista curdo iraniano Komala, che da decenni operano nella regione autonoma nel nord dell’Iraq. Il 14 novembre nei bombardamenti era morta un’altra persona e otto erano state ferite.

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