20 febbraio 2020 13:04

Sessantacinque anni, alto, robusto, un golf di lana morbida, Gianluigi Bruni lavora come portiere in un edificio di fine anni sessanta nel quartiere romano della Garbatella. Gli manca poco per andare in pensione. Nel 1995 seppe che il vecchio portiere stava per lasciare e mandò un curriculum all’ente di previdenza degli avvocati, proprietario dell’edificio. Nel curriculum c’era scritto tutto di sé: che non aveva esperienza di portineria, che era laureato in filosofia all’università di Roma e diplomato al Centro sperimentale di cinematografia, e che nel cinema aveva lavorato per dodici anni. Era stato assistente alla regia di Federico Fellini nel film La città delle donne, poi segretario e ispettore di produzione. Aveva collaborato con Luigi Comencini, Lina Wertmüller e Liliana Cavani, e con Dino Risi aveva realizzato uno spot pubblicitario.

Fin qui il curriculum, che fu apprezzato e che gli procurò l’impiego. Il seguito travagliato della sua vita, la disoccupazione, il tracollo economico, Bruni li racconta seduto in poltrona nel piccolo appartamento che gli è stato assegnato in qualità di portiere e che divide con la moglie Cristina. Nonostante il soffitto basso, la luce soffusa e i tanti libri in ordine negli scaffali di legno chiaro rimandano un’atmosfera modesta e calda.

Bruni è guardingo, controllato nelle risposte. Ha scritto un romanzo, s’intitola Luce del nord (Rubbettino 2020). È il suo esordio nella narrativa ed è anch’esso la storia di un tracollo. La misura che lui usa nel parlarne dipende forse dal timore che la sua storia personale diventi un filtro per leggere il romanzo. I tre personaggi di Luce del nord, Eva, Cristian e Frank, si raccontano ognuno con il proprio linguaggio e percorrono ognuno per proprio conto i gradini di una discesa verso il basso, dove l’esistenza è un’implacabile somma di espedienti, di sconfitte, di disperazione e di ferocia, e però contiene anche tensione solidale, amore, spunti fantastici e grotteschi.

La lotta per la sopravvivenza
Bruni fa ascoltare la voce degli ultimi, restituisce dal di dentro la lotta furiosa per sopravvivere, la difesa della dignità, pur ridotta a un barlume, il cattivo odore di un giaciglio di cartoni e poi rende quel mondo articolato e mosso tutt’altro che uniforme e disumano. Non è Ken Loach, non possiede la veemenza accusatoria verso un sistema che alimenta disuguaglianze. Ma il suo occhio è una cinepresa che scruta le vie di una Roma mai nominata dove vive, e non solo vegeta, un’umanità variegata e trattata invece al pari di uno scarto.

Non è la mia storia, precisa più volte Bruni: “Ho cominciato a scrivere nel 2016 e prima di allora ho letto, ho studiato molto, mi sono concentrato sui diversi modi di esprimersi dei tre personaggi”. Nasce così un’architettura in cui le vicende di Eva, Cristian e Frank viaggiano in parallelo, senza contatti, poi a un certo punto si incrociano e un singolo episodio è narrato così come lo vive ognuno di loro tre. Bruni insiste: costruzione letteraria, dunque, niente autobiografia. Ma è possibile immaginare che la sua esperienza lo abbia condizionato e che, sebbene non sia precipitato nel burrone dei senzatetto, nella loro esistenza abbia voluto immergersi, testimoniandola con gli attrezzi della narrativa.

“Questo è un mondo che vivo quotidianamente”, dice, “che conosco e che frequento nel mio quartiere di estrazione popolare e perfino all’interno di questo palazzo, dove accanto ai professionisti abita chi fa fatica ad andare avanti e rischia di finire per strada”. Qualcosa gli ha lasciato anche l’esperienza in una cooperativa sociale: “Con un gruppo di persone affette da hiv tenevo un corso di scrittura cinematografica. Erano quasi tutti tossicodipendenti, prostitute, transessuali. Quel mondo dolente mi ha segnato. Dovevamo realizzare un corto, avevamo il patrocinio del ministero dello spettacolo. Ma poi tutto andò in fumo”.

Fine di una carriera
Bruni finì bruscamente di lavorare nel cinema fra il 1992 e il 1993 quando, racconta, dopo Tangentopoli molti canali di finanziamento vennero meno. “Mi sono trovato con sempre meno lavoro, poi del tutto senza lavoro e così mi sono dovuto far mantenere da mia moglie”, racconta. Comincia un periodo buio. Via da Roma, Gianluigi e Cristina Bruni si trasferiscono a Palestrina, un paese della provincia; poi a Otricoli, in Umbria, in una villetta insieme agli anziani genitori di lui.

Bruni scivola verso il basso dopo aver frequentato le fantasmagoriche scenografie felliniane. Scrive diverse sceneggiature, ma nessuna va in porto. Nel 2003, quando ormai è lontano dai set cinematografici, esce un film di cui tempo prima ha realizzato la sceneggiatura. S’intitola Prendimi e portami via, con Valeria Golino e Rodolfo Laganà, regia di Tonino Zangardi. “È un’opera poco riuscita”, confessa. “Dopo di allora ho continuato a buttar giù copioni, fino ad arrendermi all’evidenza che per me non c’erano spiragli. E ho smesso”.

Il lavoro come portiere lo occupa per gran parte della giornata. Fa manutenzione del giardino, pulisce i viali interni e le scale, distribuisce la posta. “Ma se ogni mattina dovessi prendere la macchina o la metropolitana per andare al lavoro sarebbe molto peggio”, aggiunge, “non avrei avuto i ritagli di tempo che mi hanno consentito di leggere e di scrivere. Pensavo che qui sarei rimasto un paio d’anni. Invece, ecco com’è andata. In fondo ho buoni rapporti con tutti nel palazzo”.

Luce del nord matura in un periodo difficile. “Ho cominciato a scrivere per sottrarmi all’infelicità. Non mi accontentavo di quello che facevo”. Ed ecco che prende forma una delle tante storie che rimbombano nella testa di un autore cinematografico che, viste sbarrate le porte e ammessa la sconfitta, decide che proprio la sconfitta e gli sconfitti offrono uno spunto narrativo coinvolgente.

Il personaggio di Eva ha studiato senza costrutto all’università. Ha messo in cantiere diversi libri, ma non ne ha portato a termine nessuno. Si è ridotta a fare la badante di un’anziana signora che prima di morire le ha lasciato la casa. Ma l’ha fatto scrivendo le sue volontà su un foglietto al quale nessuno dà valore. La casa va in vendita e a Eva non resta che aspettare di finire per strada. Frank è il suo dirimpettaio. Ha lavorato nel cinema come stuntman. Ha condotto una vita precaria ai margini di un mondo luccicante, dal quale è stato estromesso. È un uomo violento, ubriacone ed erotomane. Ha un trascorso di picchiatore fascista. Perde tutto anche lui: il lavoro, la casa, la moglie, che ha maltrattato e tradito. Cristian è un giovane sbandato e disadattato, cacciato di casa dal padre. Suona per strada, incappa in finte amicizie e accumula disavventure, dorme alla stazione e finisce recluso nel sottoscala di un grande condominio popolare, lo stesso nel quale vivono Eva e Frank.

Qui comincia la seconda parte del romanzo, che vede i tre personaggi battersi solidali, sorreggersi e resistere, pur litigando, crollando e rialzandosi. Scoprono di aver avuto a che fare tutti e tre con Palestrina, il paese nel quale Bruni si è rifugiato e che, al pari di Roma, non è nominato, ma solo evocato come la patria del musicista del cinquecento Giovanni Pierluigi e come il luogo dove, nel Doctor Faustus di Thomas Mann, Adrian Leverkühn incontra per la prima volta il diavolo. Palestrina è immaginata come un rifugio anche da Eva, che però non riesce a convincere Frank e Cristian.

Per certi aspetti Bruni attinge al neorealismo nella versione magica, zavattiniana, di Miracolo a Milano. “Qualcuno ha detto che mi sono rappresentato nel personaggio di Eva e nella sua inconcludenza, nel suo essere una scrittrice fallita”, dice. “È vero, ma è vero anche che c’è parte di me in Frank. Di gente come lui ne ho vista tanta nel mondo del cinema, spacconi, maneschi e bugiardi. Piuttosto sono, come lui, un vecchio rancoroso. Da ragazzo, poi, non ero né dotato né brillante, un po’ come Cristian”.

Di Eva, però, Bruni condivide la passione per Fridtjof Nansen (1861-1930), l’esploratore che denunciò lo sterminio degli armeni da parte dei turchi e che si dedicò a straordinarie imprese umanitarie. Nel 1922 ebbe il Nobel per la pace e la Società delle nazioni lo nominò Alto commissario per i rifugiati. Eva vorrebbe scriverne la biografia, ma i suoi sforzi cadono nel vuoto. Nansen compare a più riprese nel romanzo, aleggia come l’esempio di chi spende la vita per alleviare le sofferenze degli ultimi, nel suo caso i rifugiati, chi scappava da un conflitto, qualunque casacca indossasse. Nansen poi svanisce e con lui il proposito di Eva. Resta l’atto di riconoscenza per chi oggi ha raccolto quell’eredità.

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