07 novembre 2016 15:09

Andare via dall’inquinata Pechino per cercare i cieli azzurri della Mongolia significa trovarsi a Ulan Bator e respirare tra gli 800 e i 1200 microgrammi di particelle pm10 e pm2,5 per metro cubo, cioè il doppio rispetto alle peggiori giornate pechinesi e venti volte sopra i limiti stabiliti dall’Organizzazione mondiale della sanità. Se si vive nella capitale cinese e quindi si ha una certa consuetudine a respirare carbone bruciato, è possibile perfino cogliere sfumature interessanti, un po’ come gli eschimesi che chiamano i fiocchi di neve con dieci nomi diversi.

Se la nube di smog di Pechino è una bolla che ti avvolge e ti fa perdere i punti di riferimento (di recente l’ho sperimentato durante un atterraggio in cui abbiamo galleggiato in un nulla opaco per venti minuti prima di toccare terra), quella di Ulan Bator è una cappa molto ben disegnata. La si può vedere nei mesi freddi salendo sul picco di Tsetsee Gun, che domina la città da sud e da dove si può contemplare una lunga striscia viola-nerastra che sovrasta per qualche centinaio di metri i quartieri settentrionali della capitale, dove si addensano le ger, le iurte dei nomadi che si sono stabiliti di recente in città. A Chingeltei, dove vivono circa 800mila persone, ne sono completamente avvolti, mentre a Zaisan, il quartiere dei ricchi dall’altra parte della valle, il cielo è azzurro limpido.

La peculiarità della capitale mongola è proprio questa: l’inquinamento dell’aria è selettivo e in nessun altro luogo come qui è una chiara metafora della diseguaglianza sociale. Lo smog e le patologie a esso legate – si calcola che circa il 10 per cento degli abitanti di Ulan Bator ne muoia – colpiscono soprattutto il proletariato di ex nomadi convertiti da poco alla sedentarietà che affolla la città al ritmo di ventimila all’anno (ormai il 70 per cento della popolazione mongola è urbanizzato). Il motivo è semplice: al di là delle particolari condizioni topografico-climatiche, per cui in una valle chiusa tra le montagne l’aria fredda siberiana schiaccia al suolo quella più calda e inquinata, chi vive nelle ger si riscalda con qualsiasi cosa abbia a disposizione, soprattutto stufe a carbone, ma anche di peggio, come mattoni rivestiti di pneumatici. È questo il problema.

Lo stigma addosso
L’odore di carbone bruciato rimane nelle narici e, come racconta un recente articolo di The Diplomat, diventa addirittura motivo di stigma sociale, perché rende immediatamente riconoscibile al sofisticato olfatto del nuovo ceto medio cosmopolita il proletariato di Chingeltei, che ha i vestiti, i capelli e la pelle impregnati di quell’odore.

Ora, una soluzione che non metta in discussione i rapporti sociali punterebbe tutto sul “balzo in avanti” tecnologico: sostituire le stufe vecchie con quelle nuove a basso rilascio di emissioni. Così è già stato fatto in passato con un progetto della Banca mondiale e della locale XacBank, che a partire dal 2009 ha permesso a famiglie a basso reddito l’acquisto di 145mila stufe grazie a un prestito a interessi bassi. Dopo qualche anno si è scoperto che solo un terzo delle famiglie che avevano comprato la stufa di nuova generazione la possedevano ancora: dopo averla comprata a tariffa agevolata per 30mila tugrik (11 euro circa), l’avevano rivenduta per centomila ai pastori nomadi, che così potevano risparmiare sul combustibile. Eterogenesi dei fini.

Dove finiscono i soldi che, pur nella stagnazione economica del paese, potrebbero essere destinati al welfare?

La soluzione di lungo periodo imporrebbe invece di destinare le risorse che arrivano dallo sfruttamento minerario a un grande progetto di edilizia popolare che tolga le gente di Chingeltei dagli slum di tende e la ricollochi in case decenti, riscaldate con impianti a energia elettrica. Ma il paradosso visivo della nuvola nera si trasforma qui nel paradosso del paesaggio urbano di Ulan Bator: a nord i quartieri di ger, a sud l’eccessivo sviluppo immobiliare di Zaisan, dove decine di complessi di nuova costruzione e di ogni tipo – dalle villette a schiera a palazzi di 15-20 piani – spuntano come funghi. Un mercato del mattone bollente, dove però più della metà delle nuove costruzioni è destinata alla fascia alta della popolazione, inaccessibili agli uomini e donne che puzzano di carbone. Molte di queste nuove abitazioni sono vuote.

Dove finiscono i soldi che, pur nella stagnazione economica del paese, dovuta al calo del prezzo delle materie prime, potrebbero essere destinati al welfare? Molti, da queste parti, ringhiano tra i denti tutto il loro odio per una leadership politica corrotta e trasversale ai due principali partiti: il Partito del popolo mongolo e il Partito democratico. Il primo ha di recente vinto le elezioni con una valanga di voti nell’ennesimo tentativo dei mongoli di cambiare le cose con strumenti democratici. Ma le speranze non sembrano né diffuse né eccessive.

Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it