03 settembre 2021 10:51

Nella carriera di ogni artista c’è un disco nel quale provi a fare il grande salto, a passare a un livello successivo. Per Little Simz probabilmente quel disco è Sometimes I might be introvert. È evidente fin dalle percussioni e dal grandioso arrangiamento orchestrale che accompagnano il primo brano, Introvert. La rapper e attrice londinese di origini nigeriane, al secolo Simbiatu Abisola Abiola Ajikawo, ha solo 26 anni ma è già da tempo un nome di punta del rap britannico (i Gorillaz l’hanno voluta in tour con loro nel 2017). Con questo lavoro le sue ambizioni sembrano cresciute parecchio. Se gli album del passato, nonostante la qualità degli arrangiamenti, inseguivano un’estetica tutto sommato underground e molto legata alla scena hip hop britannica, Sometimes I might be introvert è un affresco ad ampio spettro, che cita i classici della musica nera (Nina Simone, Lauryn Hill, Etta James, lo Smokey Robinson campionato nel pezzo Two worlds apart), pesca dal jazz e dal funk con lo spirito di chi cerca di scrivere un classico.

I 19 brani di Sometimes I might be introvert sono costruiti come un viaggio interiore, con la voce narrante dell’attrice Emma Corrin (che ha interpretato Lady Diana nella serie The crown) che fa collante tra un pezzo e l’altro. Gran parte dei testi sono autobiografici (il brano I love you, I hate you parla del difficile rapporto tra Little Simz e il padre, Little Q racconta la storia di suo cugino, scampato per miracolo alla violenza delle baby gang londinesi), ma affrontano anche grandi temi: il femminismo (Woman), il razzismo e la cultura africana (la splendida Point and kill, dov’è ospite il cantante afrobeat nigeriano Obongjayar).

“Non ci ho riflettuto molto, è venuto fuori in modo naturale. Sentivo che con questo disco dovevo passare a un livello successivo. Ero molto orgogliosa di Grey area, il mio lavoro precedente, ma volevo andare oltre, mettere me stessa e la mia storia personale al servizio della musica”, racconta Little Simz in collegamento su Zoom dagli uffici del suo management a Londra. È seduta su un divano bianco, con i lunghi dread legati sulla testa.

Per visualizzare questo contenuto, accetta i cookie di tipo marketing.

Il brano d’apertura, Introvert, è uno dei più politici. Parla esplicitamente di guerre interiori, apartheid e politici corrotti. “Nella canzone dico che diverse parti del mondo vivono in apartheid, ma non è una novità. Volevo fare luce su alcune situazioni che sono sotto gli occhi di tutti, anche se tanti fingono di non vederle: quella del popolo palestinese, ma anche il Sudafrica, dove l’apartheid non è di certo finito. Il mio cuore è con loro”, spiega la rapper, che quando parla deve vincere la sua naturale timidezza: all’inizio è molto meno loquace di come te l’aspetteresti.

Riguardo allo stile del disco, Little Simz conferma di essersi guardata molto indietro, soprattutto con l’aiuto del produttore Inflo, ormai conosciuto per essere la mente del progetto Sault: “Le mie influenze sono tante. Negli ultimi anni ho ascoltato tanto Nina Simone, Etta James, Marvin Gaye. Io e Inflo lavoriamo insieme da anni, siamo amici. In studio passiamo un sacco di tempo a chiacchierare, oltre che a fare musica. Ci piace provare sempre cose nuove e non ci poniamo steccati tra i generi: non pensiamo che siccome sono una rapper devo fare solo pezzi a 90 bpm, boom bap o trap. Ci piace esplorare il jazz, il funk, l’elettronica o l’indie”.

Per visualizzare questo contenuto, accetta i cookie di tipo marketing.

In diversi brani, come Woman, Little Simz rivendica due cose: di essere donna, e nera. “Il significato di un pezzo del genere è semplice: creare un senso di sorellanza, una cosa fondamentale, soprattutto nei confronti delle nuove generazioni. Molte donne nere si stanno ritagliando uno spazio importante nella musica, una cosa impensabile dieci anni fa. Ma il percorso da fare è lungo”, commenta la rapper.

Come detto, Sometimes I might be introvert è il disco più autobiografico di Little Simz, nel quale affronta in modo esplicito il tema del rapporto con il padre, già toccato in alcuni brani del passato. “È interessante che qualcuno si connetta con la mia vita attraverso la mia musica. Queste cose possono suonare nuove per voi, ma io ci combatto da tutta la vita. Ora mi sento pronta a discuterne in modo più aperto, per questo ho scritto I love you, I hate you. Non ho paura di affrontare l’argomento, fa parte del mio processo di guarigione. Ma ho voluto narrare anche storie da prospettive diverse dalla mia: in Little Q racconto cos’è successo anni fa a mio cugino, Qudus. È quasi morto dopo che l’hanno accoltellato, è stato in coma due settimane, poi è guarito. Stava per diventare l’ennesimo numero buono solo per le statistiche sulla violenza delle baby gang. E anche questa non è una novità: tanti giovani neri vivono questa realtà a Londra”.

Proprio alla realtà delle periferie londinesi è dedicata una famosa serie tv dove ha recitato Little Simz: Top boy, prodotta per Netflix dal rapper canadese Drake. Nel cast c’è anche un altro rapper, Kano. La terza stagione è attualmente in lavorazione e la rapper tornerà a recitare.

Il viaggio verso le radici di Sometimes I might be introvert non è solo biografico, ma anche linguistico. Nella già citata Point and kill Little Simz e il suo ospite Obongjayar cantano in pidgin, la lingua creola a base inglese parlata in tutta la Nigeria. “Obongjayar ha dato un contributo fondamentale al brano, ha aggiunto la sua magia. Per questo pezzo e per quello successivo, Fear no man, abbiamo portato in studio dei percussionisti nigeriani. Io sono rimasta nella sala di controllo a vederli suonare per ore, era una figata, sembravano guidati da uno spirito”, dice la rapper, che con il passare del tempo sembra più rilassata.

In questo disco Little Simz dimostra ancora una volta di avere una tecnica non comune: il suo flow sa adattarsi in modo sorprendente agli arrangiamenti, sa andare lento e cadenzato ma anche veloce e frenetico, come in Rollin stone, che sembra un pezzo grime. O come in questo recente concerto per la radio statunitense Npr, dove interpreta i nuovi brani in modo brillante insieme alla sua band. Del resto ha cominciato a fare free style quando aveva solo nove anni. Ma come ha sviluppato la sua tecnica? “Ho studiato gli altri rapper, cercando di capire come si adattavano alle loro basi, provavo a imitarli davanti allo specchio. E poi è semplice: ho talento”, sentenzia dal divano. È timida, ma l’autostima non le manca.

Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it