15 gennaio 2022 08:43

Quando un attore fa una battuta, deve dirla con una faccia seria. Questa è una delle regole fondamentali della comicità secondo David Zucker, regista e sceneggiatore statunitense tra gli autori di uno dei film più divertenti di sempre, L’aereo più pazzo del mondo. Se in Italia c’è qualcuno che sembra aver fatto sua questa lezione quello è Valerio Lundini. Il comico, conduttore e autore romano ha dato una bella scossa al mondo della comicità italiana con la sua trasmissione Una pezza di Lundini, andata in onda per la prima volta nel settembre 2020 in seconda serata su Rai 2 e rinnovata nel 2021 per una seconda stagione dopo il successo di pubblico e critica. È arrivato al successo dopo aver collaborato con Lillo e Greg e Nino Frassica. Descrivere il suo stile non è semplice, perché è molto contaminato da vari linguaggi, ma il nonsense e il surreale sono sicuramente le due caratteristiche principali del suo modo di fare televisione. Un linguaggio complesso, al di là delle apparenze, che potrebbe sembrare di nicchia, ma che in realtà è riuscito a far breccia anche nel pubblico generalista, come hanno dimostrato le sue incursioni a Sanremo e nel programma Danza con me di Roberto Bolle.

“Non sono mai stato un amante dei programmi comici, però avevo la passione per il cinema di Mel Brooks e del trio formato da Jim Abrahams e i fratelli David e Jerry Zucker. Da bambino ero abituato a vedere i comici in tv come delle persone che il presentatore trattava come dei deficienti e pensavo: ‘Ma io non vorrei mai essere così’. Nei loro film invece c’era gente seria come Leslie Nielsen, che veniva da ruoli drammatici e poteva essere mio padre. Ammiravo la loro compostezza, la capacità di riuscire a essere divertenti senza fare facce strane”, racconta Lundini in collegamento su Zoom da un hotel di Pesaro, dove si trova in tour con il suo spettacolo teatrale Il mansplaining spiegato a mia figlia (che sarà a Roma il 15, 16 e 17 gennaio e proseguirà fino a fine mese). “Non ho mai amato i personaggi cazzoni tipo Jim Carrey, preferirei morire piuttosto che fare le facce che fa lui. Far ridere per me significa prendere delle persone reali e non delle macchiette. Mi ha sempre dato fastidio che L’aereo più pazzo del mondo e film simili venissero chiamati demenziali, a me sembrava demenziale tutto il resto”, aggiunge.

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Seduto nella stanza d’albergo, Lundini sta per partire per Bologna, prossima data della tournée, e indossa una felpa nera con una scritta gialla fosforescente, “Migozima”. “Sembra una cosa giapponese, ma in realtà me l’ha regalata un barbiere di Trieste, in dialetto triestino significa semplicemente ‘Io ho freddo’”, spiega. “È strano: vedo su Instagram che a tutti i personaggi famosi della tv regalano cose pazzesche. A me di solito regalano solo magliette, e una volta una mortadella, che, per carità, era buonissima”.

Che effetto gli fa portare avanti un tour durante una pandemia? “Ormai mi sono abituato al contesto, mi sembra già un miracolo riuscire a fare gli spettacoli. Le persone hanno le mascherine, quello è strano, però forse farà ancora più strano tornare a teatro quando finirà tutto questo, ammesso che finisca mai. Sono stato a Londra un paio di mesi fa e lì il pubblico non porta le mascherine, ero disorientato”.

Ma riguardo al pubblico dei suoi spettacoli, Lundini ha notato anche un’altra cosa: “In quelli che facevo prima di fare esperienza in tv c’erano sicuramente meno persone, tutte dai 25 ai 30-40 anni. Ora invece, per qualche motivo che io stesso fatico a spiegarmi, gli estratti del mio programma si sono diffusi tra i supergiovani, come li chiamava Elio, che magari guardano solo le mie cose su internet, senza neanche accendere la tv. Mi capita di trovarmi di fronte a persone di diciannove o vent’anni che magari non erano mai state prima a teatro se non con i genitori. È sorprendente”.

Che effetto ha questo sulla scrittura di Lundini? Gli capita mai di pensare uno sketch in funzione della fruizione su internet? “Una pezza di Lundini è stato concepito fin dall’inizio per essere un programma scomponibile, per creare situazioni che non si chiudevano. Il modo in cui internet rimastica certe cose, da un lato, è positivo perché dà loro una seconda vita. Una volta le cose in tv le vedevi una volta e ti restavano dentro la testa per due anni, adesso è inconcepibile che qualcosa non possa essere più replicato. Al momento la vita principale di questi sketch è su internet, la tv sembra solo un’anteprima. Al tempo stesso però l’effetto meme è pericoloso: pensate a Lillo, che durante Lol ha detto due o tre volte ‘so’ Lillo’ e sembra che nella sua lunga carriera abbia fatto solo quella battuta”, risponde.

A proposito di Lol, il programma comico di Amazon Prime che in Italia ha fatto un successo clamoroso, è vero che gli hanno chiesto di entrare nel cast della seconda stagione? Lui ci gira intorno: “Io non sarò in Lol 2, è tutto quello che posso dire”. E la terza stagione di Una pezza di Lundini, si farà? Anche su questo evita di rispondere: “Mi diverto un sacco con Emanuela Fanelli, Giovanni Benincasa e le altre persone che lavorano al programma. Grazie alla Pezza poi ho avuto l’occasione di conoscere persone splendide come Max Pezzali. La paura sarebbe quella di rovinare tutto perché ho finito le idee, che è la mia grande paura. Ma in realtà, se ci penso, avrei in mente diverse cose da fare. Comunque vediamo, ancora non so se si farà o meno”.

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Una delle cose più interessanti che ha fatto il suo programma è stato proprio decostruire il genere dell’intervista televisiva, trasformandolo in un momento di puro nonsense. Da dov’è nata quell’idea? “Mi sono ispirato alle cose che vedevo il pomeriggio in televisione e su internet. Non era tanto fare una parodia, gran parte delle interviste erano fatte di cose che volevo chiedere davvero agli ospiti. Per me le migliori erano quelle con personaggi che conoscevo poco, come Carlo Cottarelli o Sandra Milo. Spesso ero davvero a disagio con loro, e questo le rendeva ancora più interessanti”.

E da intervistato come le vive? “Un po’ male, in realtà. Penso sempre di non avere granché da dire. A volte mi chiedono ‘Com’è stata la tua infanzia?’ e io non so bene cosa rispondere. Ho avuto una vita normale, a Roma, andavo a scuola e il pomeriggio stavo a casa, guardavo la tv, avevo qualche amico. Ho paura che se racconto troppo di me deludo chi mi legge. Oppure nelle interviste come queste mi viene l’ansia perché quanta fatica deve fare l’intervistatore a sbobinare tutto. E poi, una volta pubblicate, non le rileggo mai, perché ho paura di sembrare un fesso, di essere stato frainteso. È un po’ come la vignetta di Zerocalcare sui virgolettati. Una volta uscì una mia intervista con la frase: ‘Piaccio solo perché sembro un pazzo’, una cosa che non ho mai detto”.

La musica è molto presente anche nell’universo comico di Lundini: dal siparietto sul “fottuto rock” con i Måneskin a quello sulla trap insieme al rapper Carl Brave. Tra l’altro Lundini da anni è pianista e tastierista della band rock anni cinquanta VazzaNikki, che ha voluto al suo fianco sia a Una pezza di Lundini sia all’AltroFestival nel 2020. “Sono appassionato di musica da sempre. Ho cominciato a suonare da bambino perché Babbo Natale mi portò una piccola pianola da venti tasti. E io imparai a suonare Sheriff degli Oliver Onions trovando le note a orecchio. Ho preso qualche lezione di musica classica da piccolo, poi mi sono messo da solo a suonare cose tipo boogie woogie. Al liceo volevo mettere su una band rock anni cinquanta, ma senza internet era impossibile trovare un contrabbassista. Alla fine siamo riusciti a mettere su un gruppo, i VazzaNikki. Ci divertivamo, facevamo rock’n’roll americano e pezzi nostri, e per me è stata una bella gavetta per quanto riguarda lo stare sul palco. E poi potevamo dividere per cinque le cazzate che dicevamo sul palco”.

E che musica gli piace? “Sono nato nel 1986 e mi sono formato negli anni novanta: la mia data di riferimento è il 1997, che ha sfornato grandi album come Be here now degli Oasis, il primo che mi sono comprato da solo in un negozio di dischi, e Urban hymns dei Verve. Non ero tanto scuola Nirvana, ero più per il britpop. Sono da anni un fan gli Oasis, facevano delle interviste spassose e hanno scritto grandi canzoni, non solo le più conosciute, ma anche piccoli tesori nascosti come Let’s all make believe, il lato b del singolo Go let it out”.

Quando parla, Valerio Lundini sembra pesare molto le parole, come se avesse sempre paura di far passare il messaggio sbagliato. È gentile e disponibile, ma anche cauto, scrupoloso. Cita sempre con grande precisione date, nomi. Sembra essersi preparato come se dovesse scrivere lui questa intervista, come se fosse una scheggia uscita fuori dal suo programma e volesse comunque cercare di dominarla il più possibile. Nel frattempo si è fatto un po’ tardi, deve partire per Bologna. Ma prima ci tiene a dire: “Grazie, buon lavoro e buona sbobinatura. Spero che non ci metterai troppo”.

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