Era il 1984. Negli Stati Uniti era uscito da poco Born in the U.S.A., forse il disco più famoso di Bruce Springsteen, e oltreoceano la “Springsteenmania” era in pieno svolgimento. Un brano, in particolare, stava spopolando, quello che dava il titolo all’album: Born in the U.S.A. Era un inno rock con un sintetizzatore in primo piano, una melodia orecchiabile e un ritornello che ricordava come il protagonista fosse “nato negli Stati Uniti”.
Il presidente repubblicano dell’epoca, Ronald Reagan, stava facendo campagna elettorale per ottenere il secondo mandato e il 19 settembre di quell’anno si presentò a un comizio a Hammonton, nel New Jersey, pronunciando queste parole: “Il futuro dell’America riposa in mille sogni nei vostri cuori; riposa nel messaggio di speranza contenuto nelle canzoni di un uomo ammirato da così tanti giovani americani: Bruce Springsteen, originario del New Jersey. E aiutarvi a realizzare quei sogni è proprio quello che conta per me in questo lavoro”. Il senso delle sue dichiarazioni era chiaro: la destra statunitense stava cercando di adottare Springsteen, un cantante che metteva la bandiera a stelle e strisce sulle copertine dei dischi e che, appunto, cantava “sono nato negli Stati Uniti”. Peccato che Reagan non avesse capito, o avesse fatto finta di non capire, il significato di quel brano e dell’intera carriera del cantautore di Long Branch.
L’incedere marziale di Born in the U.S.A., nato durante le session dell’oscuro album acustico Nebraska, in effetti poteva far pensare a un inno patriottico. Peccato che la canzone cominci con queste parole: “Nato laggiù in una città di morti / il primo calcio l’ho preso quando ho toccato terra / fai la fine di un cane che è stato pestato troppo a lungo / fino a quando passi metà della tua vita a nasconderti”.
Il protagonista della canzone non è un americano felice a bordo di una decappottabile. È un reduce dalla guerra in Vietnam, che torna in patria e non trova lavoro. Esattamente il contrario di quello che pensavano e pensano ancora molte persone che la ascoltano. Born in the U.S.A., che nella sua prima versione era una canzone blues cupissima, è un pezzo di denuncia, che descrive gli effetti devastanti delle politiche economiche sulla classe lavoratrice, mettendo in scena la fine dello stesso sogno americano che apparentemente celebra.
Durante un concerto del 21 settembre a Pittsburgh, Springsteen rispose negativamente presentando la sua canzone Johnny 99, un brano su un operaio del settore automobilistico nel New Jersey che viene licenziato, si ubriaca, uccide un lavoratore notturno incontrato per caso e viene condannato a 99 anni di prigione: “L’altro giorno il presidente ha citato il mio nome, e mi sono chiesto quale fosse il suo album preferito. Non credo fosse Nebraska. Non credo che abbia ascoltato questo pezzo”. Come a dire: lasciami stare, non sono dalla tua parte.
Sono passati più di quarant’anni e Bruce Springsteen, da sempre un elettore di area democratica, continua ad avere un rapporto complicato con i presidenti repubblicani. Stavolta si tratta di Donald Trump. Tutto è cominciato il 14 maggio, durante la prima tappa del tour Land of hope and dreams a Manchester, nel Regno Unito. Per introdurre tre brani in scaletta – Land of hope and dreams, House of a thousand guitars e My city of ruins – il Boss ha tenuto altrettanti discorsi, nei quali ha fatto dichiarazioni come: “Casa mia, l’America che amo, l’America di cui ho scritto, che è stata un faro di speranza e libertà per 250 anni, è attualmente nelle mani di un’amministrazione corrotta, incompetente e traditrice”.
In un altro momento ha detto: “Stanno perseguitando le persone per aver usato il loro diritto alla libertà di parola ed espresso il loro dissenso. Stanno revocando la storica legislazione sui diritti civili che ha portato a una società più giusta e plurale. Stanno abbandonando i nostri grandi alleati e si stanno schierando con i dittatori contro coloro che lottano per la propria libertà. Stanno tagliando i fondi alle università che non si piegano alle loro richieste ideologiche. Stanno allontanando i residenti dalle strade americane e, senza un regolare processo, li deportano in centri di detenzione e prigioni all’estero”. Il musicista ha anche preso di mira i colleghi repubblicani di Trump, così come il Partito democratico, sostenendo che non sono riusciti a proteggere gli statunitensi “dagli abusi di un presidente inadatto e di un governo canaglia”.
La risposta di Trump è arrivata il 16 maggio con un messaggio sul suo social network, Truth: “Vedo che il sopravvalutatissimo Bruce Springsteen va in un paese straniero a parlare male del presidente degli Stati Uniti. Non mi è mai piaciuto, non mi è mai piaciuta la sua musica, né le sue idee di sinistra radicale e, soprattutto, non ha talento. È solo un idiota invadente e odioso, che ha sostenuto il corrotto Joe Biden”. Trump ha concluso: “Questo rocker prugna secca (ha la pelle tutta atrofizzata!) dovrebbe tenere la bocca chiusa finché non torna nel paese, questa è la normalità. Poi vedremo come andrà a finire!”.
Pochi minuti dopo aver risposto ai commenti di Springsteen con un tono piuttosto aggressivo, Trump è passato a Taylor Swift. “Qualcuno ha notato che, da quando ho detto ‘odio Taylor Swift’, non è più ‘popolare’?”. In realtà, ovviamente, non è così. Swift si è semplicemente presa un periodo di pausa dal suo lunghissimo The eras tour, e quindi è comparsa molto di meno sui social media e i mezzi d’informazione.
Il 19 maggio il presidente è tornato sulla questione, sempre su Truth, insinuando che Springsteen, insieme a Beyoncé, Bono Vox e Oprah Winfrey dovrebbero essere indagati per verificare se il loro sostegno alla candidata democratica Kamala Harris durante la campagna elettorale di novembre sia stato “illegale”. Trump ha scritto che Beyoncé sarebbe stata “pagata 11 milioni di dollari per salire sul palco, dare il suo sostegno a Kamala, e andarsene tra forti fischi per non essersi mai esibita, nemmeno una canzone”. Questa notizia diffusa dal presidente, da quello che risulta, è falsa.
La Federazione dei musicisti degli Stati Uniti e del Canada ha condannato le dichiarazioni di Trump, ricordando che “I musicisti hanno diritto alla libertà di espressione”. Chissà se Springsteen risponderà al presidente, o se la cosa finirà qui. Magari dedicherà anche a lui Johnny 99.
Questo articolo è tratto dalla newsletter Musicale.
Iscriviti a Musicale |
Cosa succede nel mondo della musica. A cura di Giovanni Ansaldo. Ogni lunedì.
|
Iscriviti |
Iscriviti a Musicale
|
Cosa succede nel mondo della musica. A cura di Giovanni Ansaldo. Ogni lunedì.
|
Iscriviti |
Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it